Ecclesia Dei. Cattolici Apostolici Romani

LA FILOSOFIA E IL PROBLEMA TEOLOGICO: UN'INTRODUZIONE

« Older   Newer »
  Share  
TotusTuus
view post Posted on 11/8/2006, 18:28     +1   -1




INTRODUZIONE



I principali atteggiamenti del pensiero moderno di fronte al problema dell'esistenza di Dio sono: il teismo, il fideismo, il materialismo, il panteismo, l'agnosticismo e il pensiero debole.
Pe il teismo Dio è un postulato della ragione e del cuore; per il fideismo, Dio, inaccessibile all'umana ragione, è oggetto della sola fede; per il panteismo Dio è immanente al mondo dal quale non si distingue; per l'agnosticismo il problema dell'esistenza di Dio è insolubile, sul quale la ragione non può fare piena luce; per il materialismo questo problema non si pone e non può essere posto; per il pensiero debole è impossibile la metafisica.
Contro queste affermazioni protesta il senso comune e l'autorità infallibile della Chiesa Cattolica. Dio esiste, quale Dio personale, perfettamente distinto dal mondo creato, assolutamente semplice, uno e immutabile. Come tale la ragione umana con le sue forze proprie arriva a conoscerlo.
E' davvero possibile conoscere Dio? Quale sarebbe la via da seguire per arrivare alla conoscibilità dell'Essere Supremo? Qual'è la certezza delle prove razionali adotte per provare la Sua esistenza?
C'è chi pretende conoscere Dio mediante un'intuizione naturale e immediata dell'essere divino. m aciò non può essere, poichè la visione immediata di Dio è il coronamento dell'ordine soprannaturale e non può essere in nessun modo oggetto proporzionato alle pure forze dell'intelletto crato, di per sè limitato alle cose finite.
Vi è chi vuole che l'esistenza di Dio sia una verità evidente, una verità che non ha bisogno di prove, come un principio (ad es. quello di contraddizione); o almeno una verità che si può provare senza ricorrere alle cose create, pensando alla sola nozione, al solo concetto di Dio, il quale viene considerato quale perfettissimo, che raccoglie in sè tutte le perfezioni possibili: anche quella dell'esistenza. Una tale posizione neppure può sostenersi, poichè non possiamo con la ragione attingere Dio com'è in sè stesso: la proposizione "Dio esiste", sebbene in se stessa evidente, non è tale per il nostro intelletto.
Dunque, seguendo San Tommaso d'Aquino, le creature saranno la sola via che ci porteranno al Creatore; le cose create ci serviranno di scala per giungere a Dio. Esse, parlandoci del loro Artefice, ci riveleranno la sua esistenza e i suoi attributi.

LE CREATURE E DIO



Contemplando l'universo la ragione vi scorge numerosi effetti che domandano una causa speciale, cioè una causa propria. Causa propia è quella necessariamente richiesta per avere un tale effetto; causa che per di più lo produce immediatamente, "per sè primo", come dicono i filosofi. Ad esempio il fuoco che riscalda, il suono che colpisce l'udito, sono rispettivamente cause proprie del calore e dell'udito. Se effetti particolari e momentanei hanno per causa propria cause particolari e transitorie, effetti universali e permanenti avranno cause proprie universali, permanenti e quindi trascendenti.
Ecco un beve esempio. Questo animale, poniamo un gatto, è la causa propria della generazione di quest'altro animale, il gatto, ma per nulla potrà spiegare l'esistenza della vita animale nel creato; è quindi necessario ricorrere ad una causa più universale, tra le quali troviamo il sole che è sorgente del calore necessario alla vita animale, ma non esiste di per se steso. Lo stesso dicasi del moto, del colore, dell'odore.....Dagli effetti creati si deduce: Se ciò che esiste, non ha in se stesso la ragione suprema della sua esistenza, deve averla in un altro Essere che esiste necessariamente di per se stesso.
A questa causa propria, universale, permanente e trascendente si dà il nome di Primo Principio.
quanto si è detto per le creature sensibili vale a maggior ragione per le cose intellegibili e spirituali (l'essere, la verità, la bontà......). La loro natura non include nulla di materiale e di imperfetto; dobbiamo quindi ammettere, come causa propria dell'Ente, in quanto essere di ciascuna realtà creta, L'Essere increato e sussistente; e, per lo stesso motivo, la Verità Suprema, fondamento di ogni verità; la Suprema Bontà e il Primo Amore sorgenti di ogni desiderio di bene.
Con san Tommaso si può affermare che la prova dell'esistenza di Dio è una prova "a posteriori", vale a dire una prova che dagli effetti propri risale alla loro causa propria, necessaria ed immediata.
Non si tratta di risalire nel passato la serie delle cause accidentali o subordinate accidentalmente, ma di retrocedere, nel presente, lungo la serie delle cause essenzialmente subordinate.
Non si arriva a Dio risalendo, ad esempio, dalla gallina all'uovo, dall'uovo ad un'altra gallina e così via nel passato, poichè in tal senso si retrocederà all'infinito senza trovare la Prima Causa. Solo la via delle cause essenzialmente subordinate ci può condurre all'esistenza di un Primo Essere, di un Primo Bene, di una Prima Intelligenza, alla Causa Suprema dell'essere, del bene, del vero creati e limitati.
Il principio di causalità è la via che la ragione umana deve tenere per conoscere Dio.

IL VALORE DELLA PROVA



Per gli empiristi la nozione di causalità si riduce all'immagine comune di successione fenomenale invariabile, accompagnata dal nome di causa. L'obiezione dei positivisti però non tocca minimamente il valore del principio di causalita per almeno due motivi:

a) perchè contraria al senso comune

b) perchè conduce all'assurdo


Se noi non sperimentiamo, come essi dicono, l'influsso di una cosa in un'altra, ma solo la successione invariabile dei fenomeni, siamo continuamente vittime dell'illusione e sbocchiamo nello scetticismo.
Inoltre la negazione del principio di causalità conduce l'intelligenza all'assurdo, e cioè ad ammettere che il più viene dal meno.
La vera formula del principio di causalità non è: "Ogni fenomeno suppone un fenomeno antecedente, e così via all'infinito nel passato"; ma: "Tutto ciò che esiste non da se stesso esige una causa, in ultima analisi una causa non causata".
In altri termini il principio di causalità non ha solo un valore fenomenico, ma un valore ontologico e trascendente.

LA PROVA PIU' GENERALE



Il principio della prova più generale che meglio rappresenta l'essenziale procedimento del senso comune quando si eleva a Dio , è il seguente: "IL PIU' NON PUO' VENIRE DAL MENO"; tale principio ci esprime che il divenire non può derivare se non che dall'essere determinato; l'essere causato dall'essere non causato; il contingente dal necessario; l'imperfetto, il composto, il molteplice, dal perfetto, dal semplice, dall'uno; l'ordine dall'intelligenza. SOLO IL SUPERIORE SPIEGA L'INFERIORE.

FONDAMENTO DELLE PROVE: LA CAUSA PROPRIA



Le prove razionali dell'esistenza di Dio sono a poteriori; sono ricavate dall'esperienza e tutte sono basate sul principio di causalità. Quindi la nozione di CAUSA PROPRIA costituisce il fondamento delle prove dell'esistenza di Dio.

1° La causa propria è quella che di per sè (per se) ed immediatamente come tale (primo) può produrre il tale effetto: quella da cui il tale effetto dipende per se primo, necessariamente ed immediatamente, come una proprietà dipende dall'essenza da cui deriva. L'effetto proprio è come una proprietà ad extra.

2° La causa propria, in quanto necessariamente richiesta, differisce dalla causa accidentale.

3° la causa propria in quanto immediatamente richiesta, differisce da ogni altra, sia pure necessariamente richiesta.

4° Le cause più particolari sono causa propria degli effetti più particolari. Così questo animale è causa propia della generazione di questo vivente della stessa specie; ma non spiega l'esistenza della vita animalale sulla terra. "Manifestum est autem quod, si aliqua duo sunt eiusdem speciei, unum non potest esse per se causa formae alterius, inquantum est talis forma, quia sic esset causa formae propriae, cum sit eadem ratio utriusque. Sed potest esse causa huiusmodi formae secundum quod est in materia, idest quod haec materia acquirat hanc formam." (S. Tommaso, Summa Theologiae, I, q. 104, a. 1)

5° questo corpo in movimento può produrre quell'altro movimento; ma se il movimento in se stesso non ha in sè la sua ragione d'essere, bisogna che abbia come causa propria un primo motore superiore ad OGNI movimento, d'un ordine più elevato. (Crf. S. Tommaso, Summa Theologiae, I, q. 45, a. 5)

6° Bisogna inoltre distinguere la causa propria del divenire dalla causa propria dell'essere stesso e della conservazione di questo effetto (Crf. San Tommaso, Summa Theologiae, I, q. 104, a. 1). Secondo un esempio di Aristotele, l'architetto, è la causa propria della costruzione della casa, ma egli non è causa propria dell'essere di questa casa: difatti se egli muore, la casa non cessa per questo di esistere. Allo stesso modo il figlio sopravvive al padre. invece il calore solare è necessario sia alla generazione delle piante e degli animali che alla loro conservazione.
Quindi le cause universali superiori sono non soltanto PRODUTTRICI, ma anche CONSERVATRICI dei loro effetti; la loro causalità è permanente e sempre in atto. Partendo da un fatto certo per esperienza e mediante un principio razionale necessario ed evidente si giunge a provare l'esistenza di Dio, causa propria universale degli universalissimi effetti dai quali si è partiti. "Oportet enim universaliores effectus in universaliores et priores causas reducere". (San Tommaso, Summa Theologiae, I, q. 45, a. 5)

DIO, ESSERE E VERITA'



Il punto di partenza della prova è questo fatto: nell'universo vi sono cose più o meno BUONE, più o meno VERE, più o meno NOBILI. In altri termini: nell'universo la bontà, la verità, la nobiltà esistono in diversi gradi, dall'infimo minerale, che ha la sua resistenza, fino ai gradi superiore della vita intellettuale e morale.
I gradi della BONTA' noi li sperimentiamo tutti i giorni: un frutto è buono quando ci nutre, una pietra è buona quando è solida, un uomo è buono perchè vuole e fa il bene. Tuttavia nessuna pietra, nessun frutto, nessun uomo è buonissimo: neanche un santo, per quianto grande, è l'ottimo poichè anch'egli è limitato. E' dunque un fatto che la bontà è realizzata in diversi gradi.
Lo stesso della NOBILTA': il vegetale è più nobile del minerale, l'animale del vegetale, l'uomo dell'animale, un uomo può essere più nobile di cuore di un altro uomo, ma nessuno è nobilissimo: l'uomo più nobile è anch'egli limitato e con le sue tentazioni, debolezze, imperfezioni.
Così anche il vero ha i suoi gradi, perchè ciò che è più ricco come essere, è più ricco anche come vero. Al di sopra dello spirito falso vi è lo spirito giusto, al di sopra dello spirito che conosce la sola scienza empirica, quello che si solleva alle scienze spirituali; ma nessuna scienza di nessun uomo è verissima.
Come si spiegano allora questi gradi di contà, nobiltà, verità? Sotto la scorta di Platone, di Aristotele e di S. Agostino, S. Tommaso spiega questo fatto dei diversi gradi col principio seguente: "Il più e il meno perfetto si dicono di diversi esseri, secondo che si accostano più o meno all'essere che è la stessa perfezione". Qui San Tommaso vuole parlare di una perfezione reale, perchè essa sola può essere causa dei diversi gradi di prfezione che noi abbiamo sperimentato e che hanno bisogno di una causa.
Il principio invocato da San Tommaso vuol dire: Quando una perfezione si trova in gradi diversi in diversi esseri, NESSUNO di quelli che la possiedono in un grado imperfetto (in tutti gli esseri sperimentati si trova tale imperfezione) BASTA A RENDERNE CONTO, bisogna dunque che essa abbia la sua causa in un essere superiore, che è questa perfezione stessa.

a) Se molteplici sono gli esseri ch ehanno un aperfezione limitata, in nessuno ha essa la sua ragione d'essere; bisogna che ciascuno l'abbia ricevuta da un principio superiore che sia quella Perfezione stessa (Bontà, Verità). In una parola: il molteplice suppone l'uno.

b) Gli esseri che noi vediamo non hanno mai se non una perfezione al suo CONTRARIO, mista ad imperfezione; la bontà di un uomo è mescolata a debolezza e a turbamenti, essa non è la Bontà, e se non lo è, l'ha ricevuta da una causa superiore. In una parola: l'essere imperfetto è COMPOSTO, e ogni composto esige una causa che unisca gli elementi che lo costituiscono. Il composto suppone il semplice.

A chiarimento aggiungo che una perfezione la quale per sè non comporta limite come la bontà, la verità, la bellezza, non è limitata di fatto se non da una capacità ristretta che la riceve; così la scienza è limitata in noi dalla nostra capcità ristretta di sapere. In noi dunque esiste solo in un stato imperfetto partecipata, quindi ricevuta dalla Perfezione stessa, senza limiti, che dà agli altri un riflesso di sè stessa. Così è della verità: al di sopra delle verità particolari e contingenti (che potrebbero non essere), vi sono le verità universali e necessarie. Quest'ultime dove hanno il loro fondamento? Non nelle realtà periture, non nelle intelligenze finite, ma nella Verità suprema, sempre conosciuta dall'Intelligenza prima, che, lungi dall'aver ricevuto la Verità, è la Verità, la Verità pura, senza mescolanza di ignoranza, senza alcun limite o imperfezione. Essa è l'Essere stesso, la Sapienza stessa, è Dio.
Concludendo: quando una perfezione, il cui concetto non implica imperfezione (come la verità, la bontà, la bellezza), si trova in gradi diversi in differenti esseri, nessuno di quei che la posseggono in un grado ancora imperfetto basta a renderne conto: esso vi partecipa soltanto e l'ha ricevuta nella misura della sua capacità e l'ha ricevuta da un essere superiore, che è la perfezione stessa.

DIO SOMMO BENE



La prova precedente ne contiene implicitamente un'altra e precisamente quella per cui la beatitudine o vera felicità, che l'uomo desidera naturalmente, non si può trovare in nessun bene limitato e ristretto, ma solamente in Dio conosciuto almeno in modo naturale e amato sopra tutte le cose.
E' possibile sollevarsi al Bene supremo partendo sia dai beni imperfetti subordinati, sia dal desiderio naturale che questi beni non saturano.

a) E' impossibile che l'uomo trovi la vera felicità, solida e durevole, nei beni che passano, beni limitati; perchè il nostro intelletto vedendo subito il LIMITE, concepisce un bene superiore, e naturalmente la volontà lo desidera. S. Agostino afferma ne "Le Confessioni": "Irrequietum est cor nostrum, donec requiescat in te, Domine".
Un beve esempio. Se siamo malati desideriamo la salute: appena guariti, vediamo che la salute non basta alla nostra felicità. Lo stesso avviene nei piaceri dei sensi che generano disillusione e disgusto; così delle ricchezze, degli onori; del potere; della gloria. anche se ci fosse dato di vedere un angelo, ben presto dovremmo concludere che anche egli non è che un bene finito e perciò poverissimo in confronto del Bene stesso, senza imperfezione e limite. Due beni finiti, per quanto disuguali, sono ugualmente distanti dall'Infinito: la pietra e l'angelo in questo senso sono ugualmente infimi. (Aspetto metafisico dell'argomento)

b) La prova diventa più viva se partiamo dal nostro desiderio naturale di felicità che tutti sentiamon vivamente. (Aspetto psicologico/morale dell'argomento).

San Tommaso (Crf I-II, q. 2, a. 7 e 8), sotto la scorta di Aristotele e di S. Agostino, insiste che l'uomo desidera naturalmente di essere felice, e siccome l'intelletto nostro conosce non solo un dato bene particolare ma il bene in generale (universale in praedicando), il bene come tale, ne segue che l'uomo tendente non verso l'idea astratta del bene, ma verso in bene reale che è nelle cose, non può trovare la sua vera beatitudine in nessun bene finito o limitato, ma solo nel Sommo bene.
E' possibile che un desiderio NATURALE sia vano, senza senso o importanza? Il desiderio fondato sulla natura immediatamente, come il desiderio di felicità, non è una semplice chimera, ma è innato e si trova in tutti gli uomini di tutti i tempi o paese. E' la stessa natura della nostra volontà, la quale, è una facoltà appetitiva del bene nella sua universalità. Mentre il desiderio dell'erbivoro e del carnivoro è di trovare rispettivamente l'erba e la carne, il desiderio naturale dell'uomo è di essere felice e la vera felicità non si trova di fatto e non si può trovare in alcun bene limitato.
Inoltre abbiamo l'argomento metafisico fondato sulla certezza del valore assoluto del principio di finalità: se il desiderio della vera felicità fosse chimerico, tutta l'attività umana, ispirata da tale desiderio, sarebbe senza finalità, senza ragione d'essere; contraria al principio necessario ed evidente che ogni agente agisce per un fine. Il quale principio si mostra anche dall'assurdo (Crf. S. Tommaso I-II, q. 1, a. 2). Se ogni agente naturale non agisse per un fine, non vi sarebbe, per esempio, nessuna ragione per l'occhio di vedere, invece di udire e di assaporare, ecc. Allora tutto diventerebbe senza ragione d'essere.
Il nostro desiderio naturale della felicità ha dunque una finalità: tende verso un bene. Questo bene non è solo un'idea della nostra mente, perchè, come disse aristotele, mentre il vero è formalmente nella mente che giudica, il bene è formalmente nelle cose. Quando noi desideriamo il cibo, non basta averne l'idea. il desiderio naturale della volontà tende, non verso l'idea del bene, ma verso un bene reale; altrimenti non è più un desiderio e soprattutto un desiderio naturale.
Allora, se questo desideroio naturale della felicità non può essere vano, e se non può trovare soddisfazione in nessun bene finito nè nella sommatoria di essi, bisogna necessariamente dire che esiste un bene puro, senza mescolanza, il Bene stesso o il Sommo bene, solo capace di rispondere alla nostra aspirazione.
Il desiderio naturale della felicità esige che noi arriviamo ad una cognizione NATURALE di Dio, ad un amore naturale efficace di Dio. Ma l'uomo è stato assunto ad uno stato soprannaturale, per la grazia cristiana, cosicchè la nostra felicità suprera la esigenza della natura puramente umana e consisterà nella visione immediata di Dio, della sua essenza soprannaturale.

DIO FONDAMENTO DEL DOVERE



Altra prova dell'esistenza di Dio è quella che ha per punto di partenza, non il desiderio di felicità, ma l'obbligo morale e l'ordinamento della nostra volontà al bene morale, per giungere al Sommo Bene come avente il diritto di essere AMATO.
In ogni uomo c'è una coscienza che dice: bisogna fare il bene ed evitare il male. Il bene è dilettevole, utile, onesto o morale. L'uomo solo conosce la distinzione dei tre generi di beni e il valore della loro gerarchia, cossichè arrivato all'età della ragione vede che sopra del bene sensibile, dilettevole ed utile, vi è anche il bene onesto o bene morale che è bene in sè, indipendentemente dai vantaggi o dai comodi che ne risultano.
E' questa una perfezione dell'uomo per cui il bene onesto appare come il fine necessario dell'attività umana e per conseguenza come OBBLIGATORIO. Ogni uomo capisce che un essere ragionevole DEVE avere un acondotta conforme alla retta ragione. Il giusto ucciso da un ladro prova l'esistenza di un mondo superiore quando esclama: tu sei il più forte, ma ciò non prova che tu abbia ragione.
Il fondamento prossimo di tale dovere è, come dimostra San Tommaso (I-II, q. 94, a. 2), il principio di finalità evidente per la nostra intelligenza, secondo il quale ogni essere opera per un fine e deve tendere a quello che gli è proporzionato.
Da ciò segue che la volontà dell'essere ragionevole deve tendere verso il bene onesto o ragionevole, al quale è ordinata. La volontà umana è per amare e volere il bene ragionevole; questo bene DEVE dunque essere realizzato da lei, da l'uomo che lo può realizzare e che esiste per realizzarlo.
Quale è il fondamento supremo dell'obbligo morale? Da dove viene la voce della coscienza che ordina e vieta?
Come l'ordine dell'universo presuppone un'intelligenza ordinatrice divina, tanto più la suppone l'ordinamento della nostra volontà al bene morale. Se il bene onesto al quale la nostra ragione è ordinata, deve essere voluto indipendentemente dalla soddisfazione o dai vantaggi che se ne ricavano, se la nostra coscienza promulga questo dovere, e poi approva o condanna, senza che noi riusciamo a soffocare il rimorso; se il diritto del bene a essere amato e praticato DOMINA la nostra attività morale e quella delle società attuali e possibili, bisogna che da tutta l'eternità vi sia stato di che fondare questi diritti assoluti del bene.
Questi diritti della giustizia ad essere praticata, che dominano la nostra vita individuale, domestica, sociale, politica e la vita internazionale dei popoli presenti, passati e futuri, non possono avere la loro ragione di essere nelle realtà contingenti e passeggere dominate da essi; neppure nei beni e doveri molteplici e subordinati. Questi diritti, superiori a tutto ciò che non è il Bene stesso, non possono avere che in lui il loro fondamento, la loro ragione ultima. Se dunque il fondamento prossimo dell'obbligo morale è l'ordine essenziale delle cose, il fondamento supremo è nel Bene Sommo, nostro fine ultimo obbiettivo. L'ordinamento passivo della nostra volontà al bene, suppone un ordinamento attivo di Colui che l'ha creato per il bene, perchè non c'è ordinamento passivo senza uno attivo.
Inoltre: che cos'è la voce della coscienza, del rimorso, se non un effetto di un obbligo morale, il quale sia causato da più in alto che la nostra ragione stessa? Da Dio, Legislatore supremo e Sommo Bene che fonda il dovere.
A questa prova si aggiungfa quella data dalla sanzione morale. La vita degli atti eroici non ricompensati quaggiàù e dei delitti non puniti, ci mostra la necessità d'un supremo Giudice rimuneratore e vendicatore: giacchè ogni altra sanzione umana temporale è insufficiente. Kant conservò la forza di questo argomento.
L'ingiustizia non può avere l'ultima parola; vi è una giustizia superiore, la cui voce si fa udire nella nostra coscienza e che un giorno deve rimettere tutto nell'ordine. Allora si manifesteranno i due aspetti del Sommo Bene, che ha diritto ad essere amato sopra ogni cosaa (diritto della Giustizia) e che è essenzialmente diffusivo di se stesso (principio della Misericordia).

LA NATURA DI DIO



Dopo aver stabilito che Dio esiste, bisogna dire ciò che Egli è. Ma la Deità com'è in sè stessa resta naturalmente inconoscibile. Infatti noi conosciamo naturalmente Dio solo nei suoi effetti che non hanno con Lui se non una difettosa e lontanissima somiglianza. Quando parliamo delle perfezioni di Dio, usiamo termini mutuati dagli attributi delle cose create, ma questi termini non possono essere univoci, perchè mentre nelle creature esprimono perfezioni distinte, in Dio significano un'unità semplice.
I nomi delle perfezioni assolute che possono attribuirsi a Dio sono analoghi, esprimono cioè delle cose essenzialmente differenti, le quali però hanno tra di loro una certa proporzione. (Crf. San Tommaso, Summa Theologiae, I, q. 13, a. 5).
Ora se non è possibile conoscere naturalmente ciò che costituisce la Deità, com'è in se stessa, ci si può chiedere se fra le assolute perfezioni naturalmente conoscibili non ve ne sia qualcuna la quale, secondo il nostro imperfetto modo di conoscere, sia il principio radicale della distinzione di Dio dal mondo e la sorgente di tutti i divini attributi. Così una tale perfezione meriterebbe, dal punto di vista logico, il nome di costitutivo formale dell'essenza divina; e sarebbe in Dio, ciò che è la razionalità nell'uomo, vale a dire il principio specifico che lo distingue da tutti gli altri esseri e da cui derivano le sue proprietà.

IL COSTITUTIVO FORMALE DELLA NATURA DIVINA, NON E' NE' LA LIBERA VOLONTA' NE' IL BENE



Il costitutivo formale dell'essenza divina non è la libera volontà. Anteriore alla libertà infatti c'è l'intelligenza, la quale delibera: La volontà segue l'intelletto (Crf. san Tommaso, Summa Theologiae, I, q. 19, a. 1); la libertà quindi è derivata.
Dio non è neppure causa sui: affermare ciò è contraddirsi perchè per causare bisogna essere. Dio può essere solo ratio sui, in quanto la sua essenza implica l'attuale esistenza: Dio è a sè (aseo) ossia da per sè, senza essere causa di se stesso.
Nemmeno il Bene è il costitutivo formale dell'essenza divina: l'essere ha una priorità logica sul bene. Il bene viene definito come l'essere giunto alla sua pienezza, alla sua perfezione, capace di attrarre l'appetito e il desiderio: Bonum quod omnia appetunt. Il bene è l'essere in quanto è appetibile, quindi la nozione di bene è meno semplice, meno assoluta, meno universale della nozione di essere. Ma se l'essere, in se stesso e assolutamente preso (simpliciter) ha una priorità sul bene, però il bene portando in sè la ragione di causa finale, che è prima fra tutte le cause, ha da questo punto di vista (secundum quid) priorità sull'essere. In tal modo dunque Dio, relativamente a noi, nei suoi rapporti di causalità con noi è anzitutto il buon Dio, lo stesso Bene. Ma considerando Dio in se stesso e non poiù in relaqzione a noi, allora Egli è lo stesso Essere: essendo questo anteriore al Bene.

IL COSTITUTIVO FORMALE DELLA NATURA DIVINA E' L'ESSERE STESSO SUSSISTENTE



Per determinare ciò che è Dio, San Tommaso comincia dallo stabilire che Dio è puro spirito, poi che è lo stesso Essere.
Dio non può avere corpo, il quale essendo meno nobile dell'anima divina, sarebbe in Lui qualcosa di imperfetto e limitato. Dio è dunque spirito puro. Ma la nozione di spirito puro noi la concepiamo solo in forma negativa e relativa all'oggetto della nostra esperienza. Ma anche se conoscessimo positivamente ciò che costituisce il puro spirito non sapremmo ancora ciò che formalmente costituisce la natura di Dio, perchè lo spirito puro può essere creato, come lo è l'angelo, che pure dista dal Creatore d'un intervallo infinito.
Qual'è il vero nome di Dio? Egli stesso si è rivelato a Mosè prima, a Giovanni, ai suoi santi (come a S. Caterina da Siena). "Io sono Colui che è" disse a Mosè. "Io sono Colui che è, tu sei quella che non è a S. Caterina.
Dio è l'Essere stesso che sussiste, al vertice d'ogni cosa, oltre tutti i limiti imposti dallo spazio, dalla materia. Dio quindi si distingue radicalmente da ogni creatura. Questa dottrina si spiega per l'identità in Dio di essenza ed esistenza: il primo motore dev'essere la sua stessa attività (Crf. San Tommaso, Summa Theologiae, I, q. 3, a. 4). Inoltre la causa prima deve avere in se stessa la ragione della propria esistenza, non può riceverla. L'essere necessario vuole come predicato essenziale l'esistenza. L'essere primo non può partecipare dell'esistenza, ma dev'essere l'Essere per essenza.
Così Dio, Colui che è, l'Essere stesso, si distingue da tutto ciò che esiste fuori di lui, da ciò che è per natura soltanto suscettibile di esistere. La composizione di essenza ed esistenza è il principio d'imperfgezione e della mutabilità delle creature; e suppone che la nozione di essere abbia un significato anologico, cioè multlipo. L'errore di ogni panteismo è considerare l'essere in generale come univoco (Crf. san Tommaso, In Metaph.; 1.1, c. V. lett. IX). Le due verità fondamentali della filosofia cristiana sono:

a) L'essere in generale è analogo

b) In Dio solo l'essenza e l'esistenza sono identiche



L'ESSERE STESSO E' IL PRICIPIO DI TUTTI I DIVINI ATTRIBUTI



Dice San Tommaso (I, q. 4, a. 2): "Secundo vero, ex hoc quod supra ostensum est, quod Deus est ipsum esse per se subsistens, ex quo oportet quod totam perfectionem essendi in se contineat Manifestum est enim quod, si aliquod calidum non habeat totam perfectionem calidi, hoc ideo est, quia calor non participatur secundum perfectam rationem, sed si calor esset per se subsistens, non posset ei aliquid deesse de virtute caloris. Unde, cum Deus sit ipsum esse subsistens, nihil de perfectione essendi potest ei deesse. Omnium autem perfectiones pertinent ad perfectionem essendi, secundum hoc enim aliqua perfecta sunt, quod aliquo modo esse habent. Unde sequitur quod nullius rei perfectio Deo desit".
L'essere in generale, dominando le specie e i generi, ha come proprietà l'unità, la verità e la bontà; L'Essere stesso sussistente deve essere essenzialmente uno, semplice ed unico, deve essere la stessa Verità; è pure il sommo Bene. Dev'essere ancora infinito; necessariamente posto al di sopra dello spazio e del tempo; è assolutamente immutabile, eterno, immenso. Relativamente a noi è invisibile e incomprensibile, sebbene conoscibile naturalemente per analogia con le creature.
Considerandolo nelle sue operazioni, L'Essere sussistente, per definizione immateriale, è spirituale intelligibile in atto e intelligente; è al sommo dell'intelligenza.
Se Colui che è è la stessa Intelligenza, bisogna con tutta evidenza, attribuirgli al vita nel suo supremo grado (Crf. San Tommaso, Summa Theologiae, I, q. 18). Dall'intelligenza procede la volontà, Dio è libera volontà. Lo stesso Essere è onnipotente. Quale causa prima è onnipresente a tutto ciò che Egli conserva nell'essere. E' Provvidenza; è giusto, perchè intelligente e buono; è misericordioso, perchè onnipotente e buono; è sommamente felice; è la Bellezza; è la Santità.
Il complesso di questi attributi ci fa dire che Dio è personale, cioè sussistente indipendentemente dalla materia, su cui si fonda l'intelligenza, la coscienza di sè e la libertà.

LA PROVVIDENZA DIVINA



San Tommaso nella quinta via (I, q. 2, a. 3) ci offre la prova a posteriori dell'esistenza di Dio come Provvidenza. Egli dice: "Quinta via sumitur ex gubernatione rerum. Videmus enim quod aliqua quae cognitione carent, scilicet corpora naturalia, operantur propter finem, quod apparet ex hoc quod semper aut frequentius eodem modo operantur, ut consequantur id quod est optimum; unde patet quod non a casu, sed ex intentione perveniunt ad finem. Ea autem quae non habent cognitionem, non tendunt in finem nisi directa ab aliquo cognoscente et intelligente, sicut sagitta a sagittante. Ergo est aliquid intelligens, a quo omnes res naturales ordinantur ad finem, et hoc dicimus Deum." Abbiamo poi un'altra prova quasi a priori della Provvidenza divina: parte dal concetto di Dio causa prima, già dimostrato a posteriori. Ascoltiamo ancora San Tommaso (I, q. 22, a. 1): "Cum autem Deus sit causa rerum per suum intellectum, et sic cuiuslibet sui effectus oportet rationem in ipso praeexistere, ut ex superioribus patet; necesse est quod ratio ordinis rerum in finem in mente divina praeexistat. Ratio autem ordinandorum in finem, proprie providentia est."
la Provvidenza è l'ordinamento dell'universo, la ragione dell'ordine delle cose. Corrisponde in Dio analogicamente a quello che è in noi la virtù della prudenza che ordina i mezzi in vista di un fine da ottenere, e che prevede a fine di provvedere. La prima ed importantissima proprietà della Provvidenza deve essere la sua assoluta universalità, che si deduce dall'assoluta universalità della causalità divina, la quale abbraccia tutti gli esseri, corruttibili ed incorrutibili, nella loro generalità e nella loro individualità. Il piano provvidenziale fino nei suoi minimi particolari fu immediatamente fissato da Dio, al quale nulla deve sfuggire. Dio è causa di tutto ciò che vi è di reale e di buono in tutte le creature e in ciascuna delle loro azioni. E' causa di tutto ad eccezione del male: disordine e privazione.
Altra proprietà della Provvidenza è quella di tutelare la libertà dei nostri atti, perchè si estende a tutti, e non solo tutela ma pure attua la nostra libertà, benchè Dio raggiunge perfino il modo libero dei nostri atti, che esso produce con noi ed in noi: "ita (Deus) movendo causas voluntarias, non aufert quin actiones earum sint voluntariae, sed potius hoc in eis facit" (San Tommaso, Summa Theologiae, I, q. 83, a. 1, ad 3um).
Dio stesso dona questa libertà: vuole che noi siamo liberi. Benchè la Provvidenza si estende immediatamente a tutto ciò che vi è di reale e di buono, quando si tratta dell'esecuzione del piano provvidenziale, Dio governa le creature inferiori per le superiori, non per impotenza da parte sua, ma perchè egli volle comunicare la dignità della causalità.

IL MISTERO DI DIO



Abbiamo visto che noi non possiamo quaggiù conoscere l'essenza divina tale quale essa è in sè; noi non conosciamo Dio se non per il riflesso delle sue perfezioni nello specchio delle cose create: e queste cose, inferiori a Lui, non ci permettono di conoscerlo tale quale è in se stesso. Noi non possiamo farci un concetto proprio e positivo della natura divina; siamo costretti a compilare le une dopo le altre queste perfezioni, aggiungendo che esse si identificano in una semplicità eminente, nell'unità superiore della Deità.

INVISIBILITA', INCOMPRENSIBILITA', CONOSCIBILITA' DI DIO



Rispetto alla nostra conoscenza naturale, sensibile o intellettuale, l'Essere divino resta invisibile perchè troppo luminoso in se stesso. "Respondeo dicendum quod, cum unumquodque sit cognoscibile secundum quod est in actu, Deus, qui est actus purus absque omni permixtione potentiae, quantum in se est, maxime cognoscibilis est. Sed quod est maxime cognoscibile in se, alicui intellectui cognoscibile non est, propter excessum intelligibilis supra intellectum, sicut sol, qui est maxime visibilis, videri non potest a vespertilione, propter excessum luminis." (San Tommaso I, q. 12, a. 1). Dio puro spirito non può essere visto dagli occhi del corpo, che percepiscono solo il sensibile. Dio non può essere visto nemmeno da un intelletto creato, abbandonato alle sue forze naturali; perchè l'oggetto proporzionato di un intelletto creato è l'essere creato, anzi dell'intelletto umano, è ciò che v'ha d'intellegibile nelle cose sensibili; solo dunque nello specchio delle cose sensibili possiamo naturalmente conoscere Dio.
Non ripugna però che Dio, mediante un dono gratuito, fortifichi e sollevi il noistro intelletto fino al punto da metterci a parte della visione immediata che Egli ha di se stesso, perchè, se l'essenza divina difatti eccede l'oggetto proprio del nostro intelletto, non ne eccede però l'oggetto adeguato, che è l'essere in tutta la sua ampiezza.
"Ad secundum dicendum quod non propter hoc Deus incomprehensibilis dicitur, quasi aliquid eius sit quod non videatur, sed quia non ita perfecte videtur, sicut visibilis est. Sicut cum aliqua demonstrabilis propositio per aliquam probabilem rationem cognoscitur, non est aliquid eius quod non cognoscatur, nec subiectum, nec praedicatum, nec compositio, sed tota non ita perfecte cognoscitur, sicut cognoscibilis est. Unde Augustinus, definiendo comprehensionem, dicit quod totum comprehenditur videndo, quod ita videtur, ut nihil eius lateat videntem; aut cuius fines circumspici possunt, tunc enim fines alicuius circumspiciuntur, quando ad finem in modo cognoscendi illam rem pervenitur." (San Tommaso, I, q. 12, a. 7 ad 2um). Solo Dio comprende se stesso, quindi l'essenza divina resta incomprensibile anche agli eletti elevati alla visione beatifica. Essi la vedono immediatamente senza bisogno di intermediari ma la loro visione non potrebbe essere comprensibile, nel senso assoluto della parola. Le intelligenze create, soprannaturalmente elevate alla visione beatifica, non possono conoscere l'infinito se non in una maniera finita, più o meno perfetta, secondo l'intensità del lume soprannaturale che ricevono. esse vedono immediatamente tutta l'essenza divina ma senza penetrarla totalmente nè vederla con l'infinita perfezione che solo appartiene a Dio; non ne esauriscono la conoscibilità infinita, nè afferrano l'innumerevole moltitudine dei possibili ch'essa virtualmente contiene.
Per quanto invisibile ed incomprensibile per noi la natura divina, essa è conoscibile attraverso l'esercizio naturale della ragione: quaggiù il nostro modo di conoscere è, come abbiamo visto, soltanto analogico e negativo o relativo all'oggetto dell'esperienza.
 
Top
TotusTuus
view post Posted on 12/8/2006, 14:45     +1   -1




SCHEDA I 1



LA VIA REMOTIONIS



L’argomentazione che parte dal divenire per concludere a un Indivenibile ci dice ancora assai poco di Dio (e si capisce: più un argomento è rigoroso e più le sue conclusioni sono limitate; negli argomenti dimostrativi si procede lentamente, la luce si scopre a poco a poco). Da quel primo attributo se ne possono però dedurre altri. Prima tuttavia di procedere all’ulteriore denominazione dell’Indivenibile, San Tommaso premette nella Summa contra Gentiles un capitolo, il 14°, sulla nostra conoscenza di Dio. (…) Noi non conosciamo che cosa è Dio –che cosa è quell’Indivenibile al quale siamo approdati – “ma ne abbiamo una qualche nozione conoscendo che cosa non è”. E si capisce, se si tiene presente la via che abbiamo seguito per affermarne l’esistenza: siamo partiti da un esistente dato nell’esperienza per inferire l’esistenza di un altro; e la ragione per cui affermiamo l’esistenza dell’altro è che ciò di cui abbiamo esperienza non può essere l’assoluto, non può stare da solo (se stesse da solo sarebbe contraddittorio); dunque è rivelato bisognoso di altro. Infatti il primo concetto che ci siamo formati di questo altro è un concetto negativo: indivenibile, immutabile. E conosceremo tanto meglio l’Altro quante più negazioni aggiungeremo –continua San Tommaso- . Infatti conosciamo tanto meglio una cosa quanto più numerose sono le differenze di essa dalle altre, poiché i concetti si specificano aggiungendo via via ulteriori determinazioni ai primi e più indeterminati concetti. E poiché non abbiamo esperienza di Dio, le differenze con le quali possiamo determinarne il concetto sono differenze negative. (…)

DALL’IMMUTABILE ALL’ETERNO E ALL’ATTO PURO



Nella Summa contra Gentiles San Tommaso parte, dicevamo, dal concetto di indivenibile e immutabile e ne deduce che l’immutabile deve essere eterno (cap. 15) ossia senza principio, senza fine, fuori dal tempo. Tempo e divenire, infatti sono connessi: il tempo è la misura del moto, del divenire, secondo Aristotele; secondo Sant’Agostino questa misura non può avverarsi se non nella coscienza (il tempo è distentio animi); è, potremmo dire, il divenire vissuto (e confesso che non ho trovato detto niente di più in altri autori, ivi compresi Bergson, Hussserl e Heidegger; anche se in questi autori si è certo arricchita la fenomenologia della nostra esperienza del tempo). Dove non c’è divenire, dunque, non c’è tempo.
E poiché la radice del divenire è la potenza, in Dio non c’è potenza (cap. 16) e qui si afferma quel primato dell’atto che era già implicito nella dimostrazione dell’esistenza di Dio: in ciò che diviene prima è la potenza e poi l’atto (prima c’è il seme e poi l’albero, prima l’ignoranza di una cosa e poi la conoscenza), ma nella totalità del reale prima è l’atto e poi la potenza, poiché non c’è potenza di esser qualche cosa se non c’è un ente in atto capace di attuare quella potenza. Una potenza che non potesse essere attuata non sarebbe, infatti, una potenza. In principio, dunque, è l’atto, e un atto che non ha in sé potenza, che è, per dir così, tutto attuato: atto puro (actus purus). Questa concezione di Dio è in antitesi con la concezione hegeliana: per Hegel la realtà originaria è il divenire: Dio si fa, diviene: da essere indeterminato si fa spirito e lo spirito si fa nella storia. Potremmo dire che Dio si fa nell’uomo. Per la concezione classica e biblica del reale la realtà originaria è l’atto puro, implicante in sé tutta la ricchezza dell’essere.
In Dio non c’è dunque materia, perchè la materia, nella concezione aristotelica che San Tommaso accetta, è il principio di indeterminazione; non è l’estensione, come per Cartesio, non è la massa, come per Newton. L’estensione può essere il segno, la manifestazione della materia perchè implica molteplicità, perchè l’esteso è ciò che non è perfettamente uno (e quindi non è perfettamente ente), ma non è la materia. Si potrebbe forse dire con Leibniz che l’estensione è un phaenomenon bene fundatum, è il modo in cui appare a noi la presenza della materia.
La potenza è anche la condizione della composizione: non c’è infatti un composto se una delle sue parti (o tutte le sue parti) non sono in potenza a qualcosa che le unisca. E se non c’è unità non c’è neppure ente. L’ente che è atto puro non può dunque avere in sé composizione, ma deve essere semplice (Summa contra Gentiles, cap. 18).

DALL’ATTO PURO ALL’IPSUM ESSE SUBSISTENS



L’esclusione di ogni composizione (perchè esclusione di ogni potenzialità) – composizione di natura e di estraneo alla natura (violento), composizione di parti estese, composizione di sostanza e accidente (cap. 23) – portano a una tesi fondamentale di San Tommaso: in Dio non c’è composizione di essenza ed essere: Dio non ha l’essere, ma è l’essere: è l’ipsum esse subsistens (cap. 22). Tesi che è connessa con la nozione di Dio come Atto puro: l’essere, infatti, è atto, è ciò per cui una cosa è in atto. L’essenza (ciò che una cosa è) è comune a ciò che esiste e a ciò che può esistere: posso descrivere che cosa è un albero senza sapere ancora se quell’albero esiste, così come lo descrive un artista; ma se quell’albero esiste, allora è attuale. L’essenza diventa attuale quando è. “L’atto è l’esistere della cosa stessa”, dice Aristotele. Affermare che Dio è l’essere sussistente vuol dire che è pienezza di essere, che il suo essere non è limitato ad essere tale o tal altro, ma è tutto. Qui, però, come abbiamo già ricordato quando abbiamo parlato del concetto hegeliano di essere, bisogna guardarsi bene dall’intendere “Dio è tutto l’essere” come se volesse dire “è l’essere di tutto”, l’essere comune a tutte le cose (Summa contra Gentiles, cap. 26).
Confondere Dio con l’essere comune a tutte le cose vorrebbe dire ipostatizzare un concetto: solo i concetti infatti sono comuni a più, perchè sono indeterminati, perchè esprimono solo delle possibilità di attuazione: l’esistente, l’attuale è sempre questo e non altro. Si dirà forse che Dio non è determinato perchè omnis determinatio est negatio, che non è questo perchè non ha differenze che lo distinguono da altro. Questa obiezione ci fa riflettere su quello che si è detto della nostra conoscenza di Dio: possiamo sapere solo ciò che Dio non è. Infatti tutte le cose determinate di cui abbiamo esperienza sono insieme determinate e delimitate: hanno una realtà positiva solo a patto di non averte altra realtà oltre la propria. Ma questo essere legato alla positività, dell’essere, con la delimitazione è proprio di un ente che non ha in sé la ragione del suo essere: perchè è fin qui e non più in là? Perchè c’è dell’ente e non piuttosto il nulla? Ciò che ha in sé la ragione del suo essere deve essere assolutamente, infinitamente, e proprio questa infinità è ciò che lo distingue da tutto il resto, è ciò per cui è altro da ciò di cui ho esperienza.
Il concetto di infinito è connesso con quello di essere sussistente, perchè essere sussistente vuol dire non essere di questo o quello (essere del gatto o dell’uomo) ma essere senza limiti.

LIBERTA’ ED INTELLIGENZA DELL’IMMUTABILE



(…) Abbiamo infatti dimostrato che deve esserci un Immutabile come ragion d’essere del divenire, e chiamiamo causa la ragion d’essere estrinseca (cioè quella che è altra, distinta da ciò di cui è ragion d’essere). Se l’Immutabile causasse necessariamente il mondo (il diveniente), il vero assoluto sarebbe l’Immutabile-col-mondo, perchè l’Immutabile non potrebbe essere senza il mondo. Ma allora l’assoluto sarebbe diveniente, comprenderebbe in sé il diveniente, non sarebbe altro dal diveniente. Dio sarebbe travolto nel divenire, diceva Masnovo. Il che sarebbe quanto a dire che il diveniente è l’assoluto, può stare da sé, contro la conclusione alla quale era arrivata la dimostrazione dell’esistenza dell’Immutabile. Si era detto, infatti: il diveniente non può essere l’assoluto, se fosse l’assoluto sarebbe contraddittorio. E ora invece esso si presenterebbe come l’assoluto, come non-contraddittorio. In altre parole: dire che l’Immutabile procede necessariamente il mutevole vuol dire confondere mutevole e immutabile, identificare mutevole con immutabile.
Ma se il mondo dell’esperienza non procede necessariamente dall’Immutabile, ne segue che ne dipende per un atto di libertà, di scelta, e quindi vuol dire che l’Immutabile è una Volontà, una Volontà libera. Ora una volontà libera è una volontà intelligente, poiché per scegliere bisogna sapere cosa si sceglie. E, come dicevo, solo quando si sia concepito l’Immutabile come Volontà intelligente si può chiamarlo Dio.

CREAZIONE LIBERA E PROVVIDENZA



(…) Se ogni cosa, ogni evento è conosciuto e voluto da Dio, ogni cosa ha un significato, ha una funzione, e ogni ente intelligente ha una missione, una vocazione; ossia può prender coscienza, entro certi limiti, di ciò che ha da essere, di ciò per cui è fattto. Se ogni cosa risponde a una idea divina si può dire che ogni ente è vero; se ogni cosa è scelta da Dio, ogni ente è buono. L’affermazione di questi due predicati trascendentali dell’essere ha un significato, esprime una concezione della realtà, solo dopo che si sia affermato che all’origine del reale sta una volontà intelligente. E altrettanto si dica della finalità dell’universo, di tutte le cose. La finalità dalla quale parte la quinta via è la finalità di alcuni enti (aliqua quae cognitione carent), non la finalità universale. E vorrei ricordare che l’affermazione che all’origine del reale sta una Volontà intelligente è il fondamento metafisico dell’etica. (…)

LA CREAZIONE COME PRODUZIONE TOTALE DELL’ESSERE



(…) non ho parlato invece della creazione come produzione totale dell’essere delle cose, creazione dal nulla, come si suol dire, e si dice giustamente, ma non bisogna lasciarsi fuorviare dall’espressione “dal nulla”, come se essa volesse dire che il nulla è la matrice dalla quale sono tratte le cose.
Se fosse così, il nulla non sarebbe nulla, ma sarebbe qualche cosa. Creazione dal nulla vuol dire dunque produzione totale dell’essere si una cosa, produzione alla quale nulla è presupposto da parte del prodotto. L’affermazione che Dio crea dal nulla non è quindi affatto in contrasto con la proposizione ex nihilo nulla fit, perchè quest’ultima proposizione vuol dire che dal nulla (cioè se non esiste né una materia, né un agente, né alcuna altra causa) non si produce nulla. Ex nihilo nulla fit è la negazione che il divenire sia originario –e per questo Hegel la respinge, e interpreta il concetto di creazione a suo modo, cioè come un sorgere dal nulla, un fieri originario.
Creazione invece può essere solo l’atto dell’Essere sussistente, poiché solo l’Essere sussistente, l’Essere originario può dare l’essere; l’essere di una determinata essenza è essere di quell’essenza lì, e basta, è , per così dire, legato a quell’essenza. In San Tommaso il concetto di creazione è connesso a quello di Dio come Ipsum esse subsistens: l’Essere sussistente è uno solo, poiché comprende tutta la ricchezza dell’essere; dunque tutto ciò che non è l’essere sussistente ha l’essere, non è l’essere, e perciò deve averlo ricevuto dall’Essere sussistente.

SANT’ANSELMO A PROPOSITO DEL NULLA



Ho detto che creazione dal nulla vuol dire solo produzione di tutto l’essere, ma talvolta quel “nulla” ci disturba. Anche Sant’Anselmo, dopo aver detto, nel capitolo VIII del Monologion, che “fatto dal nulla” vuol dire “non c’era qualcosa da cui ciò che è stato fatto sia stato tratto”, dopo aver dimostrato vari attributi di Dio, torna, nel capitolo XIX, ad essere disturbato dal nulla. Sed ecce iterum insurgit nihil. Non c’era nulla prima di Dio, non ci sarà nulla dopo Dio: sembra dunque che prima e dopo Dio ci sia il nulla. Anche qui Sant’Anselmo ripete che nulla vuol dire non aliquid: ante summam essentiam non fuit aliquid. Quando si dice che nulla fu prima della somma essenza, «uno è il significato esprimibile a parole che “prima che fosse la somma essenza ci fu un tempo in cui era il nulla”; l’altro è il significato intelligibile che “prima della somma essenza non vi fu alcuna realtà”. Come se dicessi: “Nulla mi ha insegnato a volare”, potrei spiegare questa frase così: “il nulla –che vuol dire non ente – mi ha insegnato a volare” – e questo è falso-; oppure così: “non c’è alcuna cosa che mi abbia insegnato a volare” – e questo è vero”».
Ma il discorso torna nel De casu diaboli, a proposito del carattere negativo del male: il male è nulla. Infatti la parola “nulla” significa qualche cosa, ha un significato. “Ora se la parola nulla significa qualche cosa, e non nulla, ciò che è significato sarà qualche cosa”. A questa obiezione il Masnovo risponde che ciò che è significato è l’essere negato dal nulla; “nulla”, infatti vuol dire “non aliquid”, “non ente”, e come per intendere “non uomo” bisogna intendere “uomo”, così per significare “nulla”, ossia “non ente”, bisogna intendere e significare l’ente. Ma il Discepolo obietta che quando si dice “nulla” non si intende l’ente che è negato, ma il nulla. E il Maestro risponde che ciò che è significato è la negazione dell’ente. Ora questa negazione è espressa da noi con un nome, come se fosse una cosa, ma in realtà è, appunto, la negazione dell’essere. Di molte cose -dice infatti il Maestro- «la forma grammaticale non corrisponde al tipo di realtà significata. Per esempio (…) “cecità” grammaticalmente indica una cosa, ma in realtà no è qualcosa di positivo (…) La cecità infatti non è altro che la non-vista o l’assenza di vista là dove la vista dovrebbe esserci». Così il nulla è la negazione dell’ente, negazione ipostatizzata e quindi espressa con un nome. Così è esorcizzato il fantasma di un nulla che sarebbe qualche cosa, e dal quale si immaginerebbe che sorgessero le cose.


1 Sofia Vanni Rovighi, Il problema teologico come filosofia, Eupress FTL, 2004, pp.102-118
 
Top
TotusTuus
view post Posted on 2/10/2007, 10:25     +1   -1




SCHEDA II



L’esistenza di Dio nella prospettiva delle cinque vie di S. Tommaso *



Molti oggi si scusano della propria volontaria ignoranza circa la filosofia tomista con la speciosa ragione che la terminologia dell’Aquinate sarebbe inintelligibile. Eppure se c’è una terminologia filosofica semplice e piana, e aderente alla filosofia spontanea di ogni uomo, è proprio quella di S. Tommaso, il quale non fabbrica a priori i suoi concetti e i suoi principi, ma li ricava dall’esperienza tanto sensibile che razionale, che ognuno è in grado di fare con un minimo sforzo e di buona volontà. Con tali concetti e principi, sempre verificabili nell’esperienza, si ottiene una filosofia oggettiva che s’impone da sé all’intelletto umano perché vera e solidissima, e perciò perenne, cioè duratura nei secoli. È proprio tale filosofia che libera da ogni apriorismo, fenomenismo, innatismo; e in genere da ogni monismo, escluso apertamente dall’esperienza genuina e integrale che l’uomo ha di se stesso come un composto di spirito e materia, di anima e di corpo; e in tal modo detta filosofia costruisce a sua volta un sistema serio, solido, coerente, e tutt’altro che cervellotico, ma anzi in perfetta sintonia con gl’insegnamenti dell’esperienza e le profonde aspirazioni dell’uomo, preservandoci così da ogni anarchia scientifica, e restituendo alla Filosofia la sua dignità di Scienza Regina. Al di fuori della Filosofia Perenne, cioè collaudata da secoli e portata all’apice della perfezione dal genio di Aquino, non esistono che costruzioni più o meno aprioristiche e arbitrarie, degli autentici romanzi filosofici che possono piacere alla fantasia, ma non quietano l’intelletto assetato di verità.
Tuttavia, dato il fatto della generale antipatia nei riguardi della Scolastica e del Tomismo in specie, vogliamo tentare una breve esposizione delle Cinque Vie, sfrondandole, per quanto sarà possibile, da ogni tecnicismo che possa urtare il gusto schifiltoso dei moderni, indispettirli contro di noi, e peggio ancora, nei riguardi d’una verità così fondamentale e importante qual è l’esistenza di Dio.
Al posto dunque della Prima Via di San Tommaso, «prima et manifestior» per l’evidente certezza del moto, ossia cambiamento, tanto in noi che fuori di noi, se ne potrebbe proporre un’altra sfruttando gli elementi della terza e quarta via insieme, nel modo seguente.
Qualche cosa è esistito da sempre, poiché se da sempre non fosse esistito niente, neppure oggi esisterebbe qualche cosa. Il niente infatti è del tutto sterile: ex nihilo nihil. Ma adesso qualche cosa esiste, almeno noi e il nostro mondo. Dunque qualche cosa è esistito da sempre. Orbene questo qualche cosa che è esistito da sempre e quindi esiste tuttora: o esiste in virtù di se stesso e allora è l’ipsum Esse Subsistens, che non è debitore a nessuno del suo esistere, va le a dire è appunto il Dio che cerchiamo, pelago infinito di ogni perfezione. Oppure esiste in virtù di un latro, e allora rimanda a quest’altro; il quale esisterà necessariamente in virtù di se stesso. Infatti non è possibile retrocedere all’infinito nella serie di enti dipendenti uno dall’altro nell’esistenza. La ragione è che nella serie veramente infinita da ambedue le parti, manca il primo e l’ultimo termine. Se manca il primo mancherà anche il secondo che riceve l’esistenza dal primo; se manca il secondo mancherà anche il terzo che riceve l’esistenza dal secondo, e così via. Facciamo un esempio per rendere più evidente la cosa. In una serie infinita di uomini manca necessariamente il primo padre, se ci fosse un primo padre, la serie comincerebbe da lui e non sarebbe più infinita da questa parte (a parte ante). Ma se manca il primo padre, mancherà di conseguenza il primo figlio e anche il secondo padre, e quindi il secondo figlio, il terzo padre e il terzo figlio, e così di seguito. Conseguenza: in tal caso ora non ci sarebbe né alcun padre né alcun figlio e perciò nessun uomo; il che è evidentemente falso. Bisogna dunque rigettare l’ipotesi del regresso all’infinito negli enti subordinati solo accidentalmente sia nell’essere che nell’agire. Al contrario, negli enti subordinati solo accidentalmente, cioè nell’esistenza e nell’azione, è possibile il all’infinito senza inconvenienti per l’esistenza e l’azione di tali enti; come un fabbro che esistesse ed agisse ab aeterno, potrebbe adoprare un martello dopo l’altro all’infinito, nel caso che uno dopo l’altro di questi martelli si rompesse per un motivo qualsiasi. Infatti i vari martelli non dipendono uno dall’altro nell’esistere o nell’operare, ma solo nella successione, perché appunto si rompono accidentalmente uno dopo l’altro.
Se il primo martello non si rompesse, un solo martello equivarrebbe a molti e basterebbe per tutto il lavoro se, per ipotesi, tale lavoro si protraesse all’infinito. Il che vuol dire che la moltitudine infinita dei martelli, nel caso, non è richiesta per se stessa, ma solo per il fatto accidentale delle varie rotture. E la mancanza del primo martello nella serie supposta infinita, non nuocerebbe affatto al lavoro del fabbro, perché la mancanza del primo martello non annulla minimamente l’esistenza del secondo martello o di altro qualsiasi, per la ragione appunto che i vari martelli non dipendono affatto l’uno dall’altro per esistere ed operare; come invece il figlio dipende dal padre, se non per operare, almeno, e certamente, per venire alla esistenza. Ed ecco perché se manca il primo padre, e manca necessariamente nella serie infinita a parte ante, non esisterà nessun figlio e quindi nessun uomo, mentre se manca il primo martello non per questo mancheranno gli altri [1]. E si noti, per finire, che anche il caso soltanto ipotetico della creazione ab aeterno, da nessuno finora dimostrata impossibile, non fa alcuna difficoltà, perché la creazione, anche quella ab aeterno, suppone evidentemente un creatore, che con altro nome si chiama Dio. Tale prova ci sembra validissima perchè la dimostrazione parte da concetti e principi ricavati dall’esperienza integrale, e non da pregiudizi sistematici, come invece usa fare tutta la filosofia moderna, fino ad oggi.
Come seconda Via si potrebbe presentare la quinta la quale per la sua semplicità, efficacia ed anche poesia, è adatta a guadagnarsi l’assenso e la simpatia di moltissima gente, dotti o meno che siano. Eccola: poiché il mondo fisico (non quello morale in cui entra in gioco il libero arbitrio) si presenta a tutti come una stupenda opera d’arte, cioè d’una bellezza e di un ordine ammirabile, deve esistere un artista, un ordinatore del mondo, il quale non è, certamente, l’uomo che arriva sempre a cose fatte; tanto meno un essere inferiore all’uomo, poiché nessun essere inferiore all’uomo è dotato d’intelletto, mentre l’ordine è sempre frutto di sapienza. Ora non tutti gli ordinatori possono essere subalterni e dipendenti; di chi infatti sarebbero subalterni, e da chi dipenderebbero se fuori di tutti gli ordinatori non esiste nessun ordinatore? Deve dunque esistere necessariamente un Ordinatore per eccellenza il quale ordini tutto e lui, a sua volta, non sia ordinato da nessuno, ma sia l’Ordine Sussistente; la prima scaturigine di ogni ordine e di tutti gli ordinatori inferiori. Ebbene, anche questo nome di Ordinatore Supremo non è che uno dei tanti nomi di Dio. Dunque Dio esiste.
Si noti, a rinforzo, che l’ordine prodotto dal caso, non può essere che un ordine semplice, raro e incostante, mentre l’ordine del mondo si presenta come complessissimo, risultante cioè da elementi e combinazioni quasi infiniti e tra loro molto diversi; un ordine frequentissimo anzi universale, cioè che si riscontra ovunque; e un ordine costantissimo, cioè che dura da millenni. Il quale ordine, anche se talora si altera, come in un terremoto o in un diluvio universale, si ricompone poi spontaneamente e in un tempo relativamente breve; oppure dà luogo a un ordine più grande e migliore del precedente. Del resto si ricordi che il nome caso è nato solo dalla nostra ignoranza circa la scienza delle cause , e noi ce ne serviamo tutte le volte che siamo a corto di spiegazioni adeguate. Un caso intelligente è una palesa contraddizione, che non fa certo onore a chi se ne serve come spiegazione scientifica. A questo proposito c’è chi tira in ballo la spiegazione per mezzo degli atomi e delle loro fortuite combinazioni. Una di queste, tra le tante, sarebbe appunto quella che costituisce il nostro mondo. Ma checché ne sia del calcolo delle probabilità, rimane da spiegare l’esistenza degli atomi e del movimento, che non è una cosa facile. Tali minime particelle di materia, dette appunto atomi perché credute erroneamente indivisibili, non sono infatti né prodotte né improdotte. Non sono prodotte, perché all’infuori degli atomi e delle loro combinazioni non esiste niente, e tanto meno esiste una causa produttrice; è poi assurdo il concetto di autoctisi, ovvero autoproduzione o causa sui. Non sono infine improdotti, gli atomi, perché ciò che è improdotto è autosufficiente in senso completo, e coincide con ciò che correntemente si chiama Dio.
Quanto al moto e alle sue variazioni, nella spiegazione atomista dovrebbe essere uscito dalla stasi universale, dall’infinita quiete; il che è assurdo. Il moto infatti può succedere alla quiete, ma non esser prodotto, generato dalla quiete. Il silenzio non produrrà mai alcun suono, né le tenebre alcuna luce. Dire finalmente che il moto è eterno, ne afferma la durata senza principio e senza fine, ma non ne spiega l’origine.
Queste osservazioni ci portano naturalmente ad esporre quella che potrebbe essere la Terza Via e che nell’Aquinate è al prima, la quale parte appunto dal moto e si può brevemente formulare così. Niente può muovere totalmente se stesso. Infatti ciò che muove totalmente se stesso è totalmente attivo in quanto muove totalmente, ed è totalmente passivo in quanto totalmente mosso; il che implica la contraddizione di ciò che è, insieme e sotto lo stesso rispetto, totalmente in atto, ossia totalmente attivo, e totalmente in potenza, ossia totalmente passivo, come si esprime S. Tommaso in una terminologia tutt’altro che difficile e barbara. Ma si obietta subito: è evidente che una stessa persona si muove da se stessa. Sì, ma nella stessa persona e, in genere, in ogni semovente è sempre distinta la parte movente e la parte mossa; così io non posso con tutta la mano destra muovere tutta la mano destra, ma soltanto una parte con un’altra parte; ossia in ogni semovente si distingue la parte movente e quindi attiva, e la parte mossa e quindi passiva.
Il che è espresso tecnicamente dall’Aquinate con una frase, derisa soltanto da chi non la capisce: Nihil potest esse simul in actu et in potentia respectu eiusdem. Così lo stesso dito non può essere insieme totalmente freddo e totalmente caldo; ma una falange può essere totalmente calda e l’altra totalmente fredda. Concludendo dunque: se niente può muovere totalmente se stesso, ne segue che Quidquid movetur, ab alio movetur [2]. Ma non si può retrocedere all’infinito nella serie dei mossi e dei moventi dove nessuno di essi muove se non mosso dall’altro, perché ciò distruggerebbe il moto stesso, la cui esistenza tuttavia è attestata inequivocabilmente dall’esperienza. Perciò Diogene, a quel tale che gli negava il moto, non rispose niente, ma si alzò e si mise a passeggiare.
Retrocedendo dunque nella serie dei mossi e dei moventi, a un certo punto si dovrà trovare un movente che non è a sua volta mosso da un altro, ma che muove tutto il resto, ossia è totalmente attivo (cioè in atto) e niente affatto passivo (cioè in potenza). È questo appunto IL MOTORE IMMOBILE; però, intendiamoci bene, non immobile della immobilità dell’inerzia o della morte, ma dell’immobilità della perfezione; vale a dire che, essendo totalmente e infinitamente perfetto, non ha niente da acquistare e niente da perdere, e in questo senso è immobile, cioè immutabile. Si noti qui che il progresso è, sì, una perfezione, ma una perfezione delle cose imperfette; così un bambino che cresce negli anni, in tanto cresce e progredisce in quanto è privo dei benefizi dell’età adulta; e il mio progredire nella filosofia in tanto è possibile ed ha un senso, in quanto io non la possiedo ancora in grado perfetto, al quale perciò mi sforzo di avvicinarmi. E se potessi essere simultaneamente in più luoghi, per es. a Roma e a Firenze, non avrei bisogno di prendere il treno o l’aereo per recarmi a Firenze, dove per ipotesi mi troverei già. E così, anche l’evoluzione, oggi tanto magnificata e sbandierata, è una perfezione soltanto di ciò che è imperfetto. Quindi il perfettissimo non può evolvere, perché possiede già tutto ciò che acquisterebbe con l’evoluzione. Ma tant’è: l’uomo riduce tutto alla sua misura, fino a rendere imperfetto Dio stesso; come quell’evoluzionista francese il quale a chi gli domandava: ma esiste Dio? Rispondeva tranquillamente: pas encore. Anzi la logica inesorabile va ancora più avanti e risponde: non solo Dio non esiste ancora, ma non esisterà mai perché Dio si avrebbe solo al termine dell’evoluzione, la quale tuttavia, essendo eterna, non avrà mai fine. Dio dunque, in tale ipotesi, non solo non esiste, ma è addirittura impossibile che esista. A tanto può condurre un pregiudizio di sistema.
Come Quarta via potremmo adottare quella che nella Somma Teologica è la seconda e l’Aquinate l’espone così. Tra le cose sensibili ai riscontra un ordine delle cause efficienti; né, d’altra parte, è possibile che un qualche cosa sia causa di se stesso perché in tal modo esisterebbe prima di se stesso, il che è impossibile. Ma neppure è possibile che nelle cause efficienti ordinate si possa procedere all’infinito, poiché in tali cause la prima è causa della media e la media dell’ultima, sia che le cause medie siano molte od una soltanto. Ma tolta la causa, si toglie l’effetto. Dunque se nelle cause efficienti viene a mancare la prima, mancherà pure la seconda e l’ultima. Ma se si procede all’infinito nelle cause efficienti, non esisterà la prima causa efficiente, e così non esisterà né l’effetto ultimo, né le cause efficienti medie; il che però è apertamente falso.
È necessario dunque porre una causa efficiente prima, che tutti chiamano Dio. Più brevemente ancora si potrebbe dire: Esiste qualche cosa di causato, per es. il figlio dal padre, il sonno dalla stanchezza, la morte dalla malattia. Ma non tutto può essere causato, perché fuori del tutto non c’è evidentemente nulla. Bisogna dunque ammettere una causa incausata che spieghi tutto il causato, ed essa non abbia bisogno di spiegazione alcuna. Esiste perciò una Causa Suprema, detta altrimenti Dio. La prova non si elude se non negando arbitrariamente la reale esistenza delle cause e il concetto oggettivo di causalità. Ma a ciò non può bastare l’affermazione di un filosofo anche di gran nome, che ignori però quell’infallibile maestro che è l’esperienza integrale conoscitiva, la quale ci attesta inequivocabilmente l’esistenza delle cause. La causalità non si può ridurre alla successione, sia pure necessaria. La notte succede necessariamente al giorno ma non è causata dal giorno, poiché la luce (del giorno) non può produrre il buio (della notte). Ed è ridicolo dire che il figlio non ha alcun nesso di causalità col padre, ma solo quello di succedergli nell’esistenza. Il ridurre poi la causalità a un mero schema mentale mi obbligherebbe, senza nessun fondamento reale, a ordinare i fenomeni in serie di cause ed effetti, è un’affermazione gratuita, originata da una miopia intellettuale, e non suffragata da alcuna ragione seria ed oggettiva. Di conseguenza resta confermato il valore oggettivo e trascendente del principio di causalità; che è l’anima di tutte le prove dell’esistenza di Dio. Anche a tale principio si arriva dall’esperienza che ci attesta l’esistenza del contingente, vale a dire di ciò che di per sé è insufficiente ad esistere e tuttavia esiste. Ciò vuol dire che c’è un qualche cosa che colma l’insufficienza del contingente ad esistere da solo, e lo rende esistente di fatto.
Di qui la formulazione semplice ma chiara e persuasiva del principio di causalità: Ciò che di per sé è intrinsecamente insufficiente ad esistere, se esiste ha una causa [3].
Le Cinque Vie di S. Tommaso s’implicano e si richiamano a vicenda, perché sono altrettanti aspetti di un unico e medesimo argomento che partendo da fatti ovvii, presentati dall’esperienza, arriva a cinque attributi che non possono convenire che alla divinità. Infatti la Prima Via, per quanto immediatamente ed esplicitamente concluda soltanto all’esistenza del primo motore immobile, analizzando tuttavia il concetto di primo motore immobile, si scorge chiaramente che tale motore non può essere che Dio. E in realtà il primo motore è atto, ossia perfezione, perché appunto muove ed agisce, e niente muove ed agisce se non in quanto è in atto: così niente riscalda se non è già in atto rispetto al calore, cioè se non lo possiede già attualmente, e nessuno può insegnare una disciplina qualsiasi se non è già dotto in tale disciplina, è poi perfezione o atto puro, appunto perché immobile; poiché ciò che è in potenza, è mobile rispetto a quell’atto o perfezione di cui manca; come un bambino è in potenza all’età adulta, ossia può muoversi ed avanzare rispetto ad essa, entrandone in possesso. Finalmente è puro in ogni ordine di perfezione, perché nell’argomento si parla del primo motore in qualsiasi genere di moto, anche spirituale. Insomma l’atto puro, per essere veramente immobile o immutabile, deve possedere in atto, e non solo in potenza o capacità, ogni genere di perfezione reale, possibile ed escogitabile. È dunque la perfezione personificata ed infinita, o ipsum Esse Subsistens, come bene conclude la Quarta Via che conduce fino al Maximum Ens. Il primo Motore immobile dev’essere perciò anche la Prima Causa Incausata di tutto (II via), ed Ente Necessario, come prova la Terza Via. Infine essendo veramente e totalmente in atto, e quindi immobile cioè immutabile, non può non essere ordinatore e Ordinatore Supremo di tutta la realtà (V via) e perciò anche Provvidente, perché provvedere consiste appunto nell’ordinare tutte le cose ad un fine e nel sorvegliare l’attuazione di detto fine.
Ogni singola Via, concludendo a un attributo che non può convenire che alla divinità, è sufficiente da sé sola a provare apoditticamente l’esistenza di Dio. E se l’Aquinate ne presenta cinque, lo fa solo ad abundantiam, e anche per venire incontro ai vari gusti, perché non tutti sono ugualmente sensibili ad ogni prova. Così i poeti e gli scienziati, specialmente gli astronomi, sono sensibilissimi alla 5a Via, che verte sull’ordine e la bellezza dell’universo; mentre un filosofo apprezzerà di più la III e IV via, che offre il panorama dell’essere e delle sue esigenze. La I via è attualissima oggi che siamo nell’età più dinamica che sia mai esistita; ma ai dinamici occorre dimostrare, coma fa appunto la prima via, che il fieri, il cambiamento, non è la perfezione, ma solo un mezzo per conquistare la perfezione nostra e scoprire la Perfezione Assoluta, il cui nome è Dio. E non si altera la prima via se invece di cominciare dal moto, dal cambiamento o fieri delle cose esterne, si comincia dal nostro fieri, dalla nostra mutabilità e incostanza, dalla nostra inquietudine, insoddisfazione e scontentezza; in una parola dalla nostra infelicità. Così accadde al grande Agostino, che dopo aver fatto tutte le esperienze, specialmente quelle del peccato, non si quietò, non trovò pace e riposo se non in Dio.
La II via finalmente è la più facile e la più accessibile alla maggior parte, perché anche i non filosofi, e sono i più; e i meno colti, o addirittura gli analfabeti purché però abbaino un po’ d’ingegno, sanno che cos’è la causa e l’effetto, che niente può essere causa di se stesso, e che senza una causa prima incausata o, come dicono, un Autore dell’universo, non è possibile spiegare il mistero del mondo e quello di noi stessi.
A noi ha fatto sempre male sentir disprezzare le Cinque Vie dell’Aquinate, quasi fossero una miseria filosofica. Al contrario, se ben studiate senza preconcetti, e soprattutto se ben capite, appariranno ad ogni mente sincera un autentico capolavoro. Infatti per avere la scienza completa di una cosa occorre rispondere a tre interrogativi: 1) se tale cosa esista veramente, 2) quale ne sia la natura, 3) quali ne siano le operazioni: an sit, quid sit, quomodo operetur. Il problema se Dio esista, il primo e più fondamentale di tutti, S. Tommaso l’affronta nelle Cinque Vie e lo risolve con cinque argomenti o prove che non contengono niente di aprioristico o cervellotico, ma solo ciò che l’esperienza conoscitiva, completa e schietta, spontaneamente ci offre.
E il meraviglioso è che le Cinque Vie non servono solo a conoscere l’esistenza di Dio, ma pure la sua natura, i suoi attributi e le sue operazioni. In altre parole: le Cinque Vie contengono in nuce tutta la filosofia teologica, ossia tutto ciò che l’uomo può e deve sapere intorno a Dio, servendosi soltanto della pura ragione. Quello che supera la ragione, l’uomo lo conosce solo attraverso la fede che suppone una rivelazione autentica, fatta da Dio stesso e attestata dalla Storia. Per aderire però alla Rivelazione la prima e indispensabile condizione è quella di esser certi dell’esistenza del Rivelatore. Ecco perché senza una buona e valida filosofia, sia pure embrionale, intorno a Dio, non è possibile credere; e quando si né creduto non è possibile dagli attacchi dell’incredulità; o meglio dagli attacchi dell’ateismo organizzato e militante, come quello di oggi. Ad armare efficacemente gli amici di Dio ha provvisto l’Aquinate in modo così valido e ricco, come nessuno fece mai prima, e difficilmente farà dopo di lui. Infatti al filosofia di Tommaso è la filosofia spontanea della natura umana, la filosofia basata sull’esperienza integrale e da essa autorizzata; che può e deve fare dei progressi, ma non cambiare sostanzialmente, come non cambia sostanzialmente la natura delle cose e la ragione dell’uomo. La riprova della perdurante validità della filosofia tomistica sono gli attacchi in forza che si ripetono ormai da sei secoli contro il Tomismo. Non si combatte contro i morti.

P. Umberto Degl’Innocenti O.P.

Note:

[1] I, q. 46, a.2, ad 7.

[2] Questo aliud o è un diverso suppositum; o, nello stesso suppositum, una parte distinta dalla parte mossa.

[3] Tale formulazione si deve a Mons. Zamboni († 1950) che la ripete spesso nelle sue opere.

* In Divinitas a. XIII (1969), n. I, pp. 77-86
 
Top
TotusTuus
view post Posted on 2/4/2008, 19:36     +1   -1




SCHEDA III *



De nihilo



Nihilum est non-ens seu negatio entis. De nihilo nulla imago seu phantasma haberi potest, quia imago semper refertur ad perceptionem, et perceptio aliquid reale percipit. Habetur tamen conceptus seu notio, quae est reflexa: prius et spontanee cognoscitur ens, postea, reflectendo supra notionem entis, concipitur eius negatio: non-ens, nihil (quasi: non-nihilum = non pilus); unde nihil cognosci potest non per se (ratione sui), sed per ens, cuius oppositum significat, et post ens (è impossibile il concetto di niente, perchè sarebbe niente di concetto o non-concetto; ma è possibile il concetto del niente).

Divisio nihil est:

1) Ratione extensionis habetur nihilum totale, quod indicat negationem cuiuscumque entitatis, et nihilum partiale, quod indicat negationem alicuius entitatis: negatio essentiae et existentiae, ut habetur ex. g. in circulo quadrato (= inintelligibile et inexistens) est nihilum totale; mors est nihilum partiale, quia negat vitam, sed non omnem entitatem.

2) Ratione subiecti, de quo negatur ens, habetur negatio, si realitas negata non est debita subiecto; privatio, si realitas est debita: negatio scientiae philosophicae in petra est negatio (nescientia), in sacerdote est privatio (ignorantia stricte dicta).

Ex dictis infertur:

a) Errat Parmenides et alii cum eo, qui proclamant nullo modo nihilum cogitari posse; ex hac absoluta incognoscibilitate nihili, sophistae deducenbant impossibilitatem erroris ita ratiocinando: si nihilum cogitari nequit, cogitatio semper cogitat ens, ac proinde errare nequit. Contra Parmenidem dicimus: est inintellegibile quod nihilum existat, at non est inintellegibilis conceptus nihili.

b) Errant Hegel et hegeliani, qui nihilum et ens in communi (= ens ut ens) identificant: ens, licet sit notio communissima, indicat omnes res modo indeterminato, dum nihilum negat ens.

* Giovanni Di Napoli, Manuale Philosophiae ad usum Seminariorum, Vol. II, Marietti, 1960, pag. 419
 
Top
Parmenideo
view post Posted on 3/4/2008, 19:18     +1   -1




qualcuno li leggerà mai questi post?
 
Top
PRAECENTOR
view post Posted on 5/4/2008, 12:35     +1   -1




Sì.
 
Top
5 replies since 11/8/2006, 18:28   555 views
  Share