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Scienza contro filosofia, la falsa alternativa

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Dominicus OP
view post Posted on 12/4/2012, 21:23     +1   -1




Scienza contro filosofia, la falsa alternativa

" title= di Giorgio Masiero*
*fisico e docente universitario


Mai come oggi le scienze naturali hanno goduto di prestigio, presso i ceti colti e ricchi come presso i più poveri e meno istruiti, di tutti i Paesi. Ciò si deve al successo delle applicazioni tecnologiche, sfruttate ovunque dagli uni e dagli altri con avidità: quando si ammala, anche il filosofo scettico si sottopone ai test di ecografi, Holter, Tac, …; nel suo lavoro, pure il teologo tradizionalista si serve di pc ed internet; quando esegue un software di tracking navale o fa trading sui tassi di cambio, anche il pirata somalo illetterato usa i satelliti per intercettare le prede nell’oceano Indiano prima ed investirne i riscatti a Londra e Dubai poi; ogni ragazzino/a del mondo chatta con gli amichetti al telefonino; ecc. L’apprezzamento verso la tecnica si trasforma immediatamente (cioè, senza una pausa di riflessione critica) in venerazione verso la scienza, la promozione di livello provenendo dall’alone di mistero che nelle masse circonda le procedure della ricerca scientifica in contrasto con l’esibizione sfacciata di gingilli high tech nelle vetrine dei centri commerciali.


Nessuna sorpresa quindi se coloro che si sono dedicati a tale attività, gli scienziati, sono la categoria oggi più corteggiata dai media. Sorprende, invece, che essi siano spesso intervistati non tanto nella loro disciplina specifica, ma dove la loro opinione vale come quella di ogni altro uomo. Dove, più precisamente? In ogni campo non scientifico: sociale, politico, morale, religioso… Così accade per es. che un famoso oncologo venga interpellato più spesso in etica, eudemonologia ed estetica (“per una vita buona, felice e bella!”) e magari in politica energetica, piuttosto che sugli ultimi progressi nella lotta ai tumori. Eppure anche gli scienziati fanno parte della specie umana: accade loro di sbagliare nel lavoro, dove per caratteristica delle procedure scientifiche la replica dell’esperimento e lo scrutinio severo della comunità scientifica internazionale intervengono di regola a correggere l’errore (vedi il caso recente dei neutrini); gli accade quando filosofano nei talk show, ma qui il prestigio della scienza e l’assenza di falsificazione creano un’aura d’infallibilità.


L’ibridazione più divertente di scienziato-professionista/filosofo-dilettante si verifica quando il personaggio si consegna al pubblico adorante, sentendosi innanzitutto in dovere di recitare il dogma positivista secondo cui solo le proposizioni scientifiche hanno senso mentre quelle filosofiche vanno lasciate ai perditempo e, celebrato il funerale della filosofia, subito dopo la resuscita per uso personale, indisturbato per il resto del discorso. La schizofrenia è stata illustrata qualche settimana fa in un articolo di Enzo Pennetta riguardante un’uscita di Luca Cavalli-Sforza. «Gli unici discorsi che val la pena affrontare sono quelli scientifici, gli altri sono privi di consistenza», il genetista aveva appena finito di sciorinare, che subito si lanciava allegramente in una serie di osservazioni filosofiche riguardanti il senso della vita, la religione, la letteratura, ecc., senza che l’intervistatore prostrato ai suoi piedi sollevasse il ditino per contestargli la contraddizione flagrante. Nella sua autobiografia “Perché la scienza? L’avventura di un ricercatore” Cavalli-Sforza aveva ripetuto lo schema per 300 pagine: «La filosofia cerca la verità attraverso il ragionamento, ed è gravemente ostacolata, a mio parere, da un limite fondamentale insito nel linguaggio. Per ragioni pratiche, ogni linguaggio ha sempre un certo livello di ambiguità: molte parole hanno più di un significato e di solito è il contesto a dirci qual è quello giusto, cioè quello inteso da chi le ha pronunziate [...]. So benissimo che questo discorso non piacerà negli ambienti più intellettuali e astratti, e quello dei filosofi è forse il più astratto di tutti, ma mi sento in dovere di farlo per onestà, consapevole che mi costerà l’accusa di non capire nulla di filosofia. L’accusa probabilmente è giusta, ma sono convinto che per fare della buona scienza non sia necessaria la filosofia» (sottolineatura mia). E così via, lo specialista in amminoacidi e nucleotidi proseguiva imperterrito, senza accorgersi di avere scritto in questo caso non un saggio sul DNA, ma un quaderno di filosofia ingenua, ricorrendo ad un “ambiguo”, “nebuloso”, “impreciso” ed “incerto” idioma: la lingua italiana. Se una delle funzioni più importanti della filosofia è d’insegnare l’arte della definizione, l’analisi della logica e la corretta procedura argomentativa, a cominciare dal rispetto dell’aristotelico principio di non contraddizione che proibisce di affermare contemporaneamente A e non A, a Cavalli-Sforza servirebbe frequentare fuori laboratorio un corso di logica. Imparerebbe allora, oltre a non contraddirsi, che nessun linguaggio che usi il calcolo proposizionale del second’ordine (e quindi nemmeno il gergo della sua arte, la biologia) è immune dalle ambiguità delle lingue ordinarie.


Anche Stephen Hawking, nel suo zibaldone di pensieri “Il grande disegno”, comincia col proclamare la morte della filosofia ed il passaggio del testimone della verità alle scienze naturali: «La filosofia è morta. Essa non ha tenuto il passo con gli sviluppi della scienza moderna, in particolare della fisica. Di conseguenza sono ora gli scienziati a portare la fiaccola della conoscenza». E, dopo la dichiarazione di rito, il tecnico delle stringhe elenca otto grandi domande cui si propone di rispondere, “scientificamente”: 1) Come possiamo capire il mondo in cui viviamo?; 2) Come funziona l’Universo? 3) Qual è la natura della realtà?; 4) Da dove viene il tutto?; 5) L’Universo richiede un Creatore?; 6) Perché c’è qualcosa piuttosto che niente?; 7) Perché esistiamo?; 8 ) Perché le leggi di natura sono queste piuttosto che altre? Il lettore accorto capisce al volo che soltanto la seconda domanda appartiene alle scienze naturali, mentre le altre sette sono di carattere filosofico, in quanto elusive del metodo sperimentale.


E’ confermato nella sua intuizione dal prosieguo della lettura del libro dove l’autore, tanto è brillante nella (sua ipotesi di) risposta all’unica questione scientifica, altrettanto balbetta e sragiona nelle altre sette. Hawking scrive: «Poiché esiste una legge di gravità, l’Universo può creare e di fatto crea se stesso da niente». Questa frase merita di entrare nel Guiness dei primati: 4 nonsensi in una riga. Se è raro, infatti, che l’uomo di strada si contraddica due volte nella stessa frase, il cosmologo che ha occupato per 30 anni a Cambridge la cattedra già di Newton e di Dirac lo fa 4 volte qui, nella proposizione che sintetizza tutta la sua ricerca metafisica:

Nonsenso n. 1: «Poiché esiste la legge di gravità… »: altolà! Allora l’Universo non è sorto da niente, ma dalla legge di gravità pre-esistente.

Nonsenso n. 2: la legge di gravità è la stessa cosa della gravità? Ovviamente no: la prima è un’equazione matematica che descrive un fenomeno naturale, la seconda è il fenomeno naturale, noto fin dalla preistoria ai nostri avi che, senza conoscere l’equazione di Newton, lo usavano in difesa salendo sulle alture e potendo così scagliare dall’alto verso il basso proiettili con maggior violenza dei nemici. E, con l’eccezione degli sciamani operanti in Amazzonia, Nuova Guinea ed Oceania – che appartengono a culture dove non è ancora stato inventato il metodo galileiano –, tutto il mondo distingue tra la capacità descrittiva e la sterilità prescrittiva delle formule nell’evocazione di eventi naturali. Insomma la legge di gravità non può fare alcunché, men che mai creare un Universo, perché per fare serve un agente.

Nonsenso n. 3: «L’Universo può creare e di fatto crea…”: la potenzialità di fare una cosa e l’atto di farla sono due stati distinti, essendo la prima un’apertura sia all’accadere che al non accadere del secondo. Va spiegato perché un evento solo possibile si è realizzato “di fatto” qualche tempo fa, e non è rimasto (per l’eternità) allo stato di potenzialità latente.

Nonsenso n. 4: «L’Universo crea se stesso», come dire «l’Universo è causa dell’Universo». Se A è causa dell’effetto B, si richiede l’esistenza della causa A per il realizzarsi dell’effetto B: quindi la proposizione “A è causa di A” è priva di senso, perché invoca l’esistenza di A per spiegare l’esistenza di A. Anche ad Hawking servirebbe un Bignami di filosofia aristotelica…


«Per fare della buona scienza non è necessaria la filosofia» dunque? Einstein bollerebbe gli autori di questi ragionamenti da bar Sport come operai di reparto cui è preclusa la visione d’insieme del lay out di fabbrica. In una lettera del 1944 lo scopritore della relatività moderna raccomandava l’insegnamento della filosofia agli scienziati con queste parole: «Io concordo pienamente con te sull’importanza ed il valore educativo della metodologia, della storia e della filosofia della scienza. Oggi molta gente, tra cui scienziati di professione, mi sembrano come chi ha visto migliaia di alberi, ma non ha mai visto una foresta. La conoscenza dei fondamenti storici e filosofici fornisce quel genere di indipendenza dai pregiudizi di cui soffre la maggior parte degli scienziati di oggi. Questa indipendenza creata dall’intuizione filosofica è, a mio parere, il segno distintivo tra un puro artigiano o specialista ed un vero ricercatore della verità» (Lettera a R.A. Thornton, Einstein Archive, Hebrew University in Jerusalem, EA 6-574).


Da che cosa è provocata questa deriva irrazionalistica contro la quale Einstein metteva in guardia già 70 anni fa? È la specializzazione, bellezza! L’altra faccia dello sviluppo tecno-scientifico è la comparsa di una nuova specie terrestre, i tecnici superspecializzati: essi si sono eletti tedofori della conoscenza del sol dell’avvenire, ma si sono fissati così maniacalmente nella loro ristretta area di lavoro da aver perso il senso del valore della filosofia come logos sintetico e veritativo, e da ignorare perfino di possedere nel loro background culturale un pregiudizio (naturalistico) che ne acceca, fuori del loro antro, la ragione contro l’evidenza. La loro razionalità è una delta di Dirac: sanno tutto su niente, e niente su tutto.



Edited by Dominicus OP - 12/4/2012, 22:57
 
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Dominicus OP
view post Posted on 12/4/2012, 21:56     +1   -1




In America c’è un clone di Boncinelli: è lo scientista Alex Rosenberg



Il manipolo di atei scientisti internazionali sta cercando di rinnovarsi dopo la morte del compianto Christopher Hitchens. Ormai i pensionati Piergiorgio Odifreddi, Margherita HackRichard Dawkins e Daniel Dennet hanno fatto il loro tempo ed è giusto chiuderli nel dimenticatoio dei “nipoti ritardati del positivismo” di fine ’900. Si è così fatto avanti il 66enne Alex Rosenberg, docente di filosofia presso la Duke University, con il suo libro “Guide The Atheist di Reality” (Norton & Company 2011)


Giusto per fare un esempio, ecco alcune risposte date da Rosenberg: “Esiste un dio? No. Qual è la natura della realtà? Quello che la fisica dice che è. “Qual è lo scopo dell’universo?” Nessuno scopo. “Qual è il significato della vita?” Nessun significato. “Perché sono qui?” Stupida fortuna. “C’è un anima? E’ immortale?” Stai scherzando? “C’è il libero arbitrio?” Neanche per sogno! “Qual è la differenza tra giusto e sbagliato, bene e male?” Non vi è alcuna differenza morale tra di loro. “Perché dovrei essere morale?” Perché ti fa sentire meglio “Ha la storia qualche significato o scopo?” E’ piena di strepito e di furore, ma non significa nulla. Leon Wieseltier ha completamente stroncato  il libro in un editoriale su “The New Republic”, definendolo il “peggiore del 2011″: «è un catechismo per le persone che credono di essersi emancipate dai catechismi. La fede che dogmaticamente espone è lo scientismo. Si tratta di un bell’esempio di come la religione della scienza può trasformare un uomo intelligente in uno stupido». Il pamphlet si basa sul classico assunto scientista: «c’è solo un modo per acquisire conoscenze, e la modalità è quella della scienza», in particolare la fisica. Ma la cosa più originale è che l’autore del libro sa benissimo quale concezione estrema sta portando avanti, e ne è orgoglioso«Lo scientismo comincia con l’idea che i fatti fisici risolvono tutti i fatti, compresi quelli biologici», scrive Rosenberg. «Questi a loro volta devono fissare i fatti umani, quelli su di noi, la nostra psicologia e la nostra moralità. Tutto ciò che ci rimane è saper scegliere il vino». Il commento allibito dell’editorialista di “The New Republic” è prevedibile: «In questo modo la scienza si trasforma in una superstizione».


Non solo nel Regno Unito, ma anche in America esiste, dunque, un clone del 71enne Edoardo Boncinelli, che su “Il Corriere della Sera”di qualche giorno fa ha scritto un articolo intitolato: «Evviva l’umiltà della scienza: l’unica strada per esplorare l’ignoto», e -citando le parole del suo amico scientista 77enne Marc Augé-: «Gli eccessi del senso, della fede e della volontà derivano tutti da un riferimento, da di principio, arbitrariamente postulato, alla totalità; rifiutano l’ignoto, cioè il reale. Nel cristianesimo la nozione di mistero nasce da un corto circuito del pensiero, da un atto di forza intellettuale che porta l’ignoto nel campo del noto, ricorrendo a nozioni come la promessa, l’annuncio, la rivelazione. Di fronte a queste dimostrazioni di superbia, la scienza è un modello di umiltà».  Tornando al nostro Rosenberg, sentire nel 2012 ancora dire che «tutta la realtà si spiega in fermioni e bosoni, la fisica ha risolto tutta la verità della realtà», vuol dire essere trasportati nel più torbido positivismo oscurantista. E’ fin troppo facile notare a Rosenberg che quando afferma: «i significati che diamo sono effettuati dai nostri pensieri, le nostre parole e le nostre azioni, ma essi sono solo castelli di sabbia che costruiamo per aria», di fatto sta tagliando il ramo su cui si è seduto e sopratutto ha fornito il migliore motivo al suo eventuale lettore per chiudere e buttare via il libro, pieno di suoi “pensieri”. Da filosofo, inoltre, afferma che «le scienze umanistiche sono “divertenti”, ma sono “morte scientificamente”», e anche in questo caso -per lo stesso motivo- ha offerto al preside del suo dipartimento di scienze umanistiche un ottimo motivo per licenziarlo. Perché tenere una persona che si occupa di nulla?


Una bella stroncatura è arrivata anche dal docente di filosofia presso la Columbia University, Philip Kitcherche ha parlato del libro dalle  colonne del New York Times”. Anche per lui siamo di fronte ad un folle: «Rosenberg punta più in alto», di Hitchens e Richard Dawkins: «gli obiettivi che considera sono le grandi questioni, domande circa la moralità, lo scopo e la coscienza. Le risposte sono tutte dentro la convinzione che la scienza possa risolvere tutte le questioni, questo è noto come “scientismo” -un’etichetta tipicamente usata in senso peggiorativo- ma per Rosenberg è un distintivo d’onore». Kitcher definisce il libro uno “scientismo evangelico”, che si basa su tre pilastri: la microfisica determina tutto quello che c’è sotto il sole, la selezione naturale darwiniana spiega tutto il comportamento umano e le neuroscienze rendono illusoria la morale e lo scopo della realtà.  Kitcher fa educatamente notare che «le conclusioni sono premature», e aggiunge: «il darwinismo allegro di Rosenberg non e più convincente della sua fisica imperialista, e i suoi racconti sulle origini evolutive del tutto, dalle nostre passioni per i racconti, della nostra gentilezza degli uni verso gli altri, sono atavici di una sociobiologia di un’era precedente, libera dalla precauzione metodologica che gli studenti dell’evoluzione umana hanno imparato»


Il filosofo Kitcher ha quindi continuato: «gran parte del libro di Rosenberg è psicologia evolutiva sui trampoli», lo stesso vale per le «sue discussioni neuroscientifiche». Rosenberg afferma che la scienza ha risposto alle grandi domande della vita, ma «le risposte sono le sue, non quelle della scienza, e si basano su interpretazioni e argomentazioni sintetiche [...], è estremo scientismo». Il bell’articolo sul “New York Times” ricorda ovviamente che «esistono domande tanto profonde che vanno ben oltre l’ambito delle scienze naturali. La fede in Dio, la convinzione dell’esistenza del libero arbitrio o del senso della vita, non sono soggetti a revisione da parte delle evidenze empiriche [...]. Il rispetto per la scienza e l’entusiasmo di imparare da essa sono pienamente compatibili col rifiuto dello scientismo. La sfida non è quello di decidere chi ha le intuizioni più importanti, ma di comprendere che la conoscenza che abbiamo della realtà è limitata, fallibile e frammentaria».


Simone Aguado

 
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