Ecclesia Dei. Cattolici Apostolici Romani

Termini filosofici fondamentali

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TotusTuus
view post Posted on 23/1/2007, 22:30     +1   -1




ENTE



(P. Cornelio Fabro) ENTE, ESSERE. Nel linguaggio ordinario possono essere sinonimi. Nella riflessione filosofica di solito sono presi come concreto e astratto: “ente” si dice di ciò che ha l'essere, di tutto ciò che è in qualsiasi modo. Per tutti i sistemi speculativi il concetto di essere è il più semplice ed iniziale: le controversie cominciano quando si tratta di precisare il suo modo di presentarsi alla coscienza secondo il quale ogni sistema prende posizione per attribuirgli quel contenuto e quella struttura che corrisponde al propria interpretazione della realtà.
Per le filosofie di tipo empirista il presentarsi dell'essere ed il suo contenuto coincide del tutto con il presentarsi con il contenuto dell'esperienza. Per le filosofie razionaliste, l'essere è dato senza residui ed espresso adeguatamente per concetti (razionalismo dogmatico) o risolto nell'attività del pensiero (idealismo). Nella prima forma di razionalismo, l'essere è conosciuto e determinato secondo un “a priori” reale (innatismo, ontologismo); nella seconda, secondo un “a priori” logico-funzionale.
Così il riferimento al problema dell'essere dà l'esatto orientamento per ogni sistema, che si riconosce e si qualifica, nell'indole e nel metodo, dall'“inizio” che prende circa il concetto dell'essere. Si veda, ad esempio, la posizione di Hegel verso l'essere, il puro essere, è identico al nulla, e quindi semplice momento dialettico (Encicl., § 86 sgg.), da una parte sforza il concetto scotista suareziano-wolfiano di essere (come genus generalissimum), dall'altra dà al principio della “sintesi a priori” la piena espansione che Kant teneva frenata dal noumeno, che era ancora l'essere reale opposto al pensiero.

Aristotele muove sempre dalla constatazione che essere si dice in molti modi. I principali sono: essere reale e essere logico (Met., V, 7, 1017 a 31): il primo costituisce la struttura degli enti materiali e spirituali; il secondo è l'essere “come verità e falsità” della copula del giudizio. L'essere reale a sua volta si divide in ente per se e per accidens (Met., V, 7, 1017 a 8): divisione con la quale si vuole distinguere nella predicazione ciò che appartiene ad un ente secondo la sua essenza da ciò che comunque si trova con essa associato. L'essere reale per se, considerato nelle sue determinazioni fondamentali, si divide secondo le “figure delle categorie” (Met., X, 10, 1051 a 35; Top., 1, 9, 103 b 27 sgg.); considerato nei modi fondamentali, in “atto e potenza”, il binomio che riassume in ultima istanza la concezione aristotelica circa la struttura dell'ente e la natura divenire (Met., IX e X).

L'ente in atto è sostanza o accidente, finito o infinito, cioè creatura o Creatore (s. Tommaso, De ente et essentia, specialmente II, 4‑5). In questa classificazione, com'è facile vedere, la molteplicità dei significati rivela un ordine di intrinseca subordinazione, che è doppia: anzitutto in quanto la coppia seguente approfondisce e smembra il contenuto dell'elemento principale della coppia precedente, e poi in quanto appunto in ogni coppia uno degli elementi domina sull'altro che si trova ad essere dipendente nel suo ordine, da quello (Met., IV, 2, 1003 a 33).

Di conseguenza, il concetto di ente, benché abbia il contenuto più povero e indeterminato (“qualcosa che è ”), lo significa tenendo compresenti i vari modi di cui si predica, e quindi è virtualmente il concetto più ricco. La comprensione di tale virtualità è compito della metafisica che ha per oggetto l'“essere in quanto essere ” (Met., IV, 1003 a 21), ed vari tipi di metafisica realistica indicano i vari metodi di svolgere la comprensione dell'essere. E' stata notata (W. D. Ross) l'assenza nella classificazione aristotelica dell'essere esistenziale (l'atto di essere esistenziale) che appare invece espressamente in s. Tommaso (In I Sent., dist. 33, I, 1 ad I). Nella filosofia pagana che non conosce la creazione, l'atto di essere coincide in concreto con l'essere sostanza, quantità, qualità, ecc.; nella filosofia cristiana l'atto di essere è l'effetto proprio di Dio, comunicato alle creature secondo una partecipazione (Quodlib., XII, q. 5 a. 5) misurata dal grado di perfezione dell'essenza di ciascuna. L'ente quindi si scinde (nel concetto) e si compone (nella realtà) di essenza e di atto di essere: la Causa prima, che è Atto puro, non ha un'essenza e quindi non è un “ente” ma è l'“Essere per sé sussistente”. Così la nozione di essere si applica anche all'accidente, alla potenza ed alla creatura: ma anzitutto e soprattutto l'essere compete alla sostanza, alla forma ed alla Divinità da cui quelli, rispettivamente, hanno di essere ciò che sono.

La nozione di essere quindi non si predica degli enti ad un modo, ma diversamente secondo i modi diversi nei quali essi realizzano l'atto di essere. In Aristotele il problema dell'analogia (v.; che diventa centrale in quella parte della teologia tradizionale che ha i suoi fulcri nella patristica, con lo Pseudo Dionigi, e, nella scolastica, con s. Tommaso) non è che accennato, avendo egli organizzato la sua metafisica al di qua di una teoria della creazione. Egli distingue al principio in Cat., I (I a 1‑12) fra i termini equivoci e univoci e nei Top. (1, 15, 106 a 9) fra i termini che si dicono in un solo senso e quelli che si dicono in più sensi. Nella Metafisica ricorre espressamente il termine, specialmente per indicare il modo di predicazione che non si riduce al genere e alla specie (V, 9, 1018 a 13); esso viene attribuito all'uno (V, 6, 1016 b 32 sgg.) e di conseguenza anche all'ente e agli altri suoi attributi, alle cause (VIII, 2, 1043 a 5; XII, 5, 1071 a 7), all'atto (IX, 1048 a, 37‑b 16). Per Aristotele la predicazione secondo analogia dice un certo rapporto positivo, a differenza della pura equivocità; ma si tratta di un rapporto di subordinazione che potrebbe dirsi “ascendente”, e non sul medesimo piano come dice la predicazione univoca. Aristotele lo indica come un rapporto di movimento di “una cosa verso un'altra”. Sembra che Aristotele non abbia conosciuto che l'analogia, come verrà poi detta dagli scolastici, di proporzione ovvero di attribuzione e di averla quasi confinata nell'àmbito predicamentale. Dice infatti : “In ogni categoria dell'essere c'è un termine analogo, come la retta nella lunghezza, il piano nella superficie, il numero impari forse nel campo dei numeri, e il color bianco fra i diversi colori” (Met., XIV, 6, 1093 b 17‑21). Ciò che non era semplice rapporto di ordine qualsiasi, se non in quanto ne presupponeva uno più profondo di stretta dipendenza: ciò che Aristotele profondamente e per il primo aveva mostrato nel rapporto fra causa ed effetto e le diverse cause fra loro, fra sostanza e accidente, fra atto e potenza: quindi in tutto l'àmbito dell'ente finito. Il rapporto all'Ente infinito, Aristotele pare lo abbia concepito soltanto come analogia ascendente, in quanto tutti gli esseri, col tendere alla propria perfezione, aspirano a Dio come a termine d'amore (Met., XII, 7, 1072 b 3; e Dio è definito essere precisamente ciò; ibid., 1072 b 1).

I commentatori greci hanno perciò giustamente i prolungato questi accenni in un abbozzo di teoria. Porfirio che riassume una tradizione, distingue in questo genere di termini due serie o forme: a) quelli che si dicono per rispetto ad una sola origine come “medicinale” di un libro, di una bevanda, di un ferro chirurgico) ... ; b) quelli di cose che tendono ad uno stesso fine come “sano”, ad es., del grano, del passeggiare, della lettura, ecc.
Analisi ancora elementare ma che consacrava la solidarietà della predicazione analogica con la dipendenza causale.

Nel pensiero cristiano, i Padri che usarono dell'analogia (come lo Pseudo Dionigi) si soffermarono di preferenza sul momento metafisico della somiglianza con Dio. Fu la scolastica, impegnata con la logica, a interessarsi del problema della predicazione dell'essere. E siccome, con la creazione, le creature ottengono da Dio propria consistenza di essere, alcuni affermano che l'ente, essendo intrinseco alle creature, si dice in modo univoco di Dio e delle creature quasi come un genere supremo (Scoto, Arriaga), o almeno possiamo (prescindendo dalle differenze dei vari enti) avere dell'ente un concetto supremo unico comune a entrambi (Suárez).
Nel tomismo invece si è mantenuta fermamente l'analogia, come espressione di modi di essere irriducibili sotto l'unità di un concetto o tutt'al più in modo incompleto. Ma i tomisti stessi poi si dividono: alcuni, seguendo il Gaetano, danno come formula dell'analogia una dissomiglianza “simpliciter” e una somiglianza solo “secundum quid”; altri invece (Blanche, Balthasar), più fedeli alla tradizione e al pensiero dell'Angelico, usano la formula “secundurn rationem partim eamdem et partim diversam” (In XI Met. lect., 3. n. 2197; cfr. ibid., In IX, n. 1768; In VII, nn. 1334‑38; Sum. Theol., I, q. 13, a. 4; De Pot., q. 7, a. 7).

Questa formula è espressa nella sua ultima purezza metafisica nei termini seguenti : “Non dicitur esse similitudo inter Deum et creaturas in forma, secundum eandem rationem generis aut speciei sed secundum analogiam tantum; prout scil. Deus est ens per essentiam, et alia per participationem” (Sum. Theol., I, q. 4, a. 3, ad 3). Questo rapporto di partecipazione, costitutivo dell'analogia, si configura naturalmente secondo il grado ontologico dei termini in rapporto: sostanza e accidente, cause intrinseche e estrinseche, atto e potenza, ecc. Così l'ente sussiste nelle relazioni ch'esso fonda e che lo muovono poi al suo compimento.

(Mons. Antonio Livi) (dal latino ens, participio presente del verbo esse = ciò che è in atto): indica l'essere individuale e concreto che costituisce la realtà, come insieme di enti diversi, raggruppabili per le proprietà che possono avere in comune; l'idea più universale che abbraccia ogni tipo di ente è la nozione astratta di essere, che san Tommaso chiama "esse comune rerum". Lo studio degli enti in quanto tali è ciò che costituisce la metafisica e propriamente l'ontologia.

POTENZA E ATTO



(P. Louis Boyer) ATTO E POTENZA. La dottrina dell'atto e della potenza, coi princìpi e le applicazioni che ne derivano, costituisce la caratteristica e il fondamento della metafisica di Aristotele.
I. NOZIONI. - Le nozioni di atto e potenza sorgono dall'analisi fenomenologico-metafisica del movimento, inteso nel suo significato più ampio, come sinonimo di cambiamento o divenire. E' questo, del cambiamento, un fatto di universale ed immediata evidenza empirica. L'essere che noi osserviamo ci si presenta, in tutti i momenti del suo sviluppo e della sua espansione, legato a un divenire molteplice e incessante per cui non è assolutamente identificabile con l'Essere uno, eterno, immobile, descritto da Parmenide. D'altra parte, ugualmente inconsistente di fronte alla ragione e all'esperienza era la posizione dì Eraclito, che, affermando il primato del movimento, nel puro divenire assorbiva anche l'essere: non è infatti concepibile il cambiamento se non in un soggetto che abbia una permanenza ontologica al di là delle sue successive perfettibilità. Occorre adunque riconoscere, con la positività del divenire, la realtà dell'essere.
Ora il divenire suppone, come suo principio e possibilità intrinseca, la potenza Si prenda l'esempio dell'artefice che scolpisce la statua: perché questo nascere, questo “divenire” della statua sia possibile, occorre anzitutto ci sia nell'artefice un potere reale, un principio dinamico che, messo in esercizio, trarrà all'essere la statua; è questa la potenza attiva. Inoltre anche nel marmo ci dev'essere una possibilità, un potere a divenire statua sotto lo scalpello dell'artista; è questa la potenza passiva. Entrambe, la potenza attiva e la passiva, costituiscono il “terminus a quo” del movimento che per esse si realizza, mentre trapassano all'atto: è in atto l'artefice quando esercita la sua arte, è in atto la statua quando è balzata fuori dalla possibilità, inerte per se stessa, del blocco di marmo. Così l'atto è la realtà o la perfezione, il fine e il termine del cambiamento; la potenza attiva ne è il principio dinamico; la potenza passiva è la capacità di passare all'atto; il movimento o cambiamento è il passaggio dalla potenza all'atto, o, meglio, l' “atto dell'essere in potenza, in quanto è in potenza”. Atto e potenza sono, come si vede, nozioni prime e elementari che non ammettono definizioni propriamente dette, ma si impongono chiaramente al pensiero dall'analisi del divenire colto nell'esperienza.

Dai megarici in poi si è inclinato spesso a non riconoscere se non l'atto, e a negare l'esistenza della potenza. Ma è chiaro che un architetto, anche quando non sta costruendo, è diverso da chi ignora l'arte di fabbricare, ed è diverso proprio perché egli ha il potere di fabbricare bene; come un violinista non cessa di essere un artista, anche quando ha cessato di suonare. Vi è più: se tutto fosse atto, senza potenza, tutto starebbe fermo, non ci sarebbe più nessun movimento, nessun cambiamento, nessun progresso, nessuna evoluzione. Non sarebbe dunque sopprimere poco, il sopprimere la distinzione della potenza dall'atto (Aristotele, Metaph., IX, 3, 7).

II. PRINCIPI - I princìpi che scaturiscono dalle nozioni di atto e di potenza e che reggono tutto il campo dell'essere sono molteplici; eccone i principali.
1° L'atto e la potenza dividono l'ente: cioè, ogni ente è solo atto o è composto di potenza e di atto Poiché si parla di ente, infatti, si parla di una realtà che è, e che conseguentemente ha almeno la perfezione di essere : è dunque un atto Se ora quel medesimo ente rimane capace di progredire, di cambiare, di muoversi, si trova dunque in potenza al termine di quel progresso, di quel cambiamento o movimento qualsiasi: è dunque composto di atto e di potenza. Se l'atto fosse tutto attualità, sarebbe tutto perfezione, tutte le perfezioni, Dio; Dio solo è atto puro. Ogni altro ente è composto di atto e di potenza. Si può parlare di una potenza pura (così viene descritta la materia prima dagli scolastici), ma essa non è affermata come un ente, bensì come puro principio dell'ente materiale, insieme con l'atto specifico o forma (vedi).
2° La potenza e l'atto sono realmente distinti: infatti, se la potenza in un ente non si distinguesse realmente ma solo concettualmente dall'atto, quell'ente è realmente tutto atto e solo atto, e dunque realmente non ha un principio reale di cambiamento: sì ricadrebbe nell'errore dei megarici.
3° Connesso coi precedenti ed applicato poi in molti casi è il principio che l'atto, nell'ordine in cui è tale, non viene limitato o moltiplicato se non è ricevuto in una potenza reale, dimodoché nell'ordine in cui esso è puro, è infinito ed unico. Eccone la ragione: l'atto non si limita da se stesso, perché nel suo concetto non entra la limitazione Si pensi, ad es., la bellezza, e si supponga che ciò che è pensato in quel concetto venga realizzato separatamente, senza determinarsi in una cosa bella, ma rimanendo la bellezza stessa: è chiaro che la bellezza stessa è una sola, e che non è bella in certo grado, ma contiene in sé la fonte di tutti i gradi di bellezza. Per pensare la bellezza limitata o moltiplicata, occorre metterla in diversi soggetti, ì quali sono tante potenza reali a riceverla, e ricevendola a limitarla secondo la loro capacità.
Questa concezione è sostanzialmente quella che informa i dialoghi di Platone; nel Fedone dove egli dice che il bello è ciò per cui le cose belle sono belle o nel Simposio, dove, trascese le bellezze inferiori, egli parla di una bellezza che sta in sé e per se stessa, eternamente unita con sé sola, mentre le altre cose sono belle per partecipazione di essa; è la concezione implicita nella dottrina dell'atto puro di Aristotele e specialmente nella sua identificazione del primo Essere con l'atto d'intelligenza in sé sussistente (Metaph., 12, 7); è la concezione di s. Agostino quando afferma : “Si potueris sine illis quae participatione boni bona sunt, perspicere ipsum bonum cuius partecipatione bona sunt... perspexeris Deum” (De Trinitate, VIII, c. 3, n. 5), ossia: “Est itaque bonum solum simplex et ob hoc solum. incommutabile, quod est Deus. Ab hoc bono creata sunt omnia bona, sed non simplicia, et ab hoc mutabilia” (De Civitate Dei, XI, c. 10, n. 1); è quella che s. Tommaso così scolpisce : “Nullus actus invenitur finiri nisi per potentiam quae est eius receptiva ” (Compendium Theologiae, c. 18).
I due ultimi princìpi non sono però ammessi da tutti gli scolastici. Molti di essi - col Suarez - pensano che un atto possa esso stesso essere potenza relativamente ad un grado superiore del medesimo atto e che l'atto possa essere limitato senza entrare in composizione con una potenza reale distinta, bastando a tale sua limitazione il carattere di contingenza. Tra gli altri princìpi, citiamo ancora che l'atto è anteriore alla potenza; che l'atto e la potenza sono nello stesso genere; che da due enti in atto non può farsi un ente che sia uno: queste ed altre asserzioni sono richieste dalle stesse nozioni sopra esposte.

III. APPLICAZIONI. - I concetti di atto e di potenza sono utilizzati dagli scolastici in molte posizioni così filosofiche che teologiche. L'uso di essi però è diverso secondo che si ammette o che si rigetta il principio che l'atto non si limita e non si moltiplica se non è ricevuto in una potenza reale. Alla luce di questo principio difatti viene, tra le altre, illustrata la dottrina della creazione, dottrina che la filosofia antica forse ignorò, o tutt'al più appena intravide, e sulla quale gli scolastici fecero, dopo s. Agostino e s. Tommaso la più diretta e la più decisiva applicazione dei princìpi dell'atto e della potenza. Il passaggio dall'uno ai molti, la coesistenza dell'infinito o perfetto col finito, la possibilità di esseri contingenti diventano in qualche modo intelligibili. L'atto di essere è in Dio puro da ogni potenzialità, uno e perfetto, ma può venire comunicato ad esseri molteplici e limitati, secondo i diversi gradi di potenzialità che entreranno nella loro costituzione. E' concepibile una gradazione ontologica, al vertice della quale sta l'atto puro, trascendente, infinitamente distinto dall'universo di cui è causa immobile; e a Lui subordinati, in scala discendente, a misura che hanno meno di atto e più di potenza, gli altri esseri, dallo spirito puro o angelo ai corpi inanimati. E' la concezione platonica della partecipazione, ma chiarita e completata, come l'hanno permesso le analisi dei princìpi aristotelici e come l'ha suggerito o confermato la rivelazione cristiana.
Spiegata dalla teoria della potenza e atto è pure un'altra dottrina importante nella filosofia tomista: la distinzione reale tra l'essenza e l'esistenza negli esseri creati. L'esistenza essendo la suprema attualità, se il suo atto non venisse ricevuto in una potenza che lo limiti, sarebbe unico ed infinito; sarebbe lo stesso Essere assoluto e perfetto, Colui che è, Dio. Ogni essere limitato dunque è necessariamente composto dall'atto di essere e dalla potenza e capacità di essere che conviene alla sua natura, cioè è composto di essenza e di esistenza. Parimenti lo stesso principio conduce ad assegnare nel mondo dei corpi come principio d'individuazione quell'elemento dell'essenza che è la materia prima. Essendo i corpi moltiplicabili nella stessa specie, l'atto che dà la determinazione specifica, cioè la forma sostanziale, si trova moltiplicato ed in ciascuno dei molti in cui esiste viene limitato. E' dunque necessario che esso attui una potenza od un soggetto potenziale, il quale lo limiti e ne permetta la moltiplicazione. Tale soggetto potenziale è nella filosofia aristotelico‑tomista la materia prima, la quale, ricevuta la quantità, si può dividere in molti soggetti potenziali di altrettante forme della medesima specie.
Altra conseguenza importante: la distinzione reale ammessa nella filosofia tomista tra l'anima e le sue facoltà. L'anima è in atto poiché è l'atto del corpo vivente. Se fosse identica alla sua facoltà, anche le facoltà sarebbero in atto. Ma una facoltà in atto sta nell'esercizio del suo agire. Ora l'esperienza dimostra che le nostre facoltà non sono sempre in atto ma che passano dalla potenza all'atto; sono dunque distinte dall'anima, la quale è sempre in atto. L'essere che è la sua facoltà è anche il suo atto, ed è atto puro.
La semplicità di Dio, malgrado l'unione in Lui di tutte le perfezioni, s'illumina alla considerazione delle esigenze dell'atto puro. Ciascuna perfezione deve trovarsi in Dio puramente atto: se non lo fosse, riterrebbe in sé quella potenza passiva che non può trovarsi in Dio, che è l'atto puro. Ma quello che è puramente atto non è altro che l'atto puro. Se dunque ciascuna perfezione s'identifica in Dio con l'atto puro, una perfezione s'identifica realmente con tutte le altre, e non entra nella natura divina, nell'ordine dell'assoluto, nessuna distinzione reale: Dio dunque è semplice.
Nel mistero dell'Incarnazione, molti teologi ritengono che l'assunzione della natura umana da parte della persona dei Verbo si spiega con l'attuazione di questa natura dall'Essere personale del Verbo o almeno che quest'attuazione segue necessariamente all'assunzione; e ciò, sia che l'attuazione introduca una qualunque realtà creata o che risulti soltanto dall'unione con l'atto increato. Questi esempi (altri potrebbero venire elencati) dimostrano di quante conseguenze e applicazioni siano fecondi, in filosofia e teologia, i princìpi circa la potenza e l'atto.

(Mons. Antonio Livi) ATTO. (dal latino actus, derivante da agere = agire); corrisponde al termine aristotelico enérgheia; in metafisica è un termine fondamentale; accanto al suo correlativo, la potenza, l'a. designa tutto ciò che è perfezione, completezza, realizzazione, mentre la potenza indica ciò che è imperfetto, incompleto, non ancora realizzato. Nelle cose materiali l'a. non si identifica mai con l'essere stesso della cosa, ma soltanto con la forma; mentre la potenza si identifica con la materia. Perciò a. e potenza non sono enti, ma principi primi dell'ente: l'a. è il principio attivo e la potenza il principio passivo. Cfr. Actus essendi. Nella filosofia cristiana l'a. è studiato anche riguardo all'etica (morale metafisica) e designa le azioni compiute da una persona. Per assumere connotazione etica, un a. deve essere libero, cioè consapevole e volontario.

(P. Battista Mondin) Categoria fondamentale della metafisica aristotelica insieme al suo correlativo la potenza. L'a. designa tutto ciò che è perfezione, completezza, realizzazione, definizione, mentre la potenza indica ciò che è imperfetto, incompleto, indefinito. Nelle cose materiali l'a. non si identifica mai con l'essere stesso della cosa, ma soltanto con la forma; mentre la potenza si identifica con la materia. Perciò atto e potenza non sono enti, ma principi primi dell'ente: l'a. è il principio attivo e la potenza il principio passivo. Aristotele distingue due gradi dell'atto, che chiama primo e secondo. Il primo è la forma sostanziale di una cosa; il secondo è l'esercizio di un'operazione. Per san Tommaso la perfezione massima è perciò l'atto di tutti gli atti l'essere (esse). Nella filosofia moderna l'atto è una categoria che riguarda più l'etica che la metafisica, e designa le azioni compiute da una persona. Per assumere connotazione etica un atto deve essere libero.

(Mons. Antonio Livi) POSSIBILITA'-POTENZA. (dal verbo latino posse = potere): indica l'evento non ancora in atto, oppure la capacità di compiere un'azione. Denota pertanto l'idea di attività ed efficacia. Nella metafisica aristotelica e scolastica, "p.", in contrapposizione ad atto, significa la condizione di passività di ciò che non è ancora realizzato. Tutti gli enti finiti sono costituiti di atto e p.; solo Dio è atto puro. Però gli stessi scolastici, rifacendosi ad Aristotele, distinguono questa p., che chiamano passiva, da un'altra che chiamano attiva. Quest'ultima denota il possesso della capacità di compiere qualche cosa. E' in questo senso che le facoltà dell'anima, soprattutto l'intelletto e la volontà, sono chiamate anche p. e Dio stesso è detto l'Onnipotente.
(P. Battista Mondin) Nel suo significato più comune indica la capacità e l'abilità di compiere qualche fatto, qualche azione. Denota pertanto l'idea di attività ed efficacia. Nella metafisica aristotelica e scolastica potenza si oppone ad atto e significa la condizione di passività, la possibilità di venire prodotto di ciò che non è ancora realizzato. Tutte le cose finite sono costituite di atto e potenza; solo Dio è atto puro. Però gli stessi scolastici, rifacendosi ad Aristotele distinguevano questa potenza, che chiamano passiva, da un'altra p. che chiamano attiva. Quest'ultima denota il possesso delle capacità di compiere qualche cosa. E' in questo caso che le facoltà dell'anima sono chiamate potenza.

MATERIA E FORMA



(Mons. Antonio Livi) MATERIA. Secondo il significato più comune, materia dice tutto ciò che è esteso e l'insieme dei corpi estesi. Nel significato tecnico (di origine aristotelica e scolastica) denota ciò che in un essere rappresenta l'elemento potenziale, indeterminato, in opposizione alla forma che rappresenta l'elemento della determinazione e attuazione. Nell'uso moderno si oppone sia a forma sia a spirito.

(P. Cornelio Fabro) FORMA. Nel significato ordinario è la disposizione esteriore delle parti di un corpo, una qualità delle sostanze sensibili, specialmente viventi, secondo la quale si dicono formose o deformi (Aristotele, Cat., 8, 10a‑12). Nella riflessione filosofica con forma si indica il principio che determina l'essenza e la struttura dell'essere come tale: allora è detta causa delle cose e “specie” per eccellenza (Phys. III, 3, 194 b 26; Met., V, 2, 1013 b 23).
La forma è il principio radicale della positività dell'essere, in quanto è la forma che determina il contenuto dell'essenza; è l'atto e la “perfezione prima” di quanto esiste o come sostanza semplice (cioè pura forma) o come sostanza composta (sinolo di materia e forma). Alla forma, atto ontologico, corrisponde nell'ordine logico la “differenza”: la forma determina e attua nella realtà la materia, la differenza specifica determina ed attua nella sintesi della definizione il contenuto ancora vago del “genere” (Met., VII, 4, 1030 a 11 sgg.). Da una parte quindi la forma quale principio distintivo e diviso per generi, percorre da cima a fondo le classificazioni degli esseri, isolandoli nella irripetibile originalità delle specie infime; dall'altra, quale principio costitutivo degli esseri stessi e ragione propria della loro struttura, la forma mantiene ad un tempo ed assicura l'unità di essere all'interno delle sostanze singole e la unità di natura nella molteplicità degli individui dispersi nel tempo e nello spazio (Top., II, 2, 109 b 14).
In una visione intellettualistica del mondo, a cui restano fedeli sia Platone come Aristotele, la forma è perciò il principio primo dell'essere, del divenire e del conoscere. Il contrasto fra i due filosofi riguarda il modo di “presenza” delle forme nella materia: se avvenga per via di “partecipazione”, così che la “vera” forma sia una soltanto (trascendente e immateriale) come vuole il platonismo; o se si debba affermare la “sussistenza” delle forme nella materia sensibile e la principalità della sostanza sensibile singolare sopra i generi e le specie, come ritiene l'aristotelismo (Met., XIII, 3, 1070 a 18; XIV, 4, 1078 a 31). Senza entrare nella controversia sull'origine prossima del concetto di forma, si deve ritenere che esso esprima il contributo più caratteristico di Aristotele alla cultura occidentale (W. Jaeger). Ed esso esprime veramente il nucleo centrale del suo pensiero, comunque esso si applichi alle analisi della natura, delle attività estetiche, etiche, sociali e politiche, della stessa riflessione filosofica. Per via della forma il divenire aristotelico non è il divenire eracliteo ma il “passaggio” dalla capacità di aver una forma all'atto di averla: passaggio operato da un “agente” che ha una tale forma prima come atto suo e poi come “fine” del suo agire. Per questo la forma è la perfezione prima e finale dell'essere (De Anima, II, 1, 412 a 10; Met.., V, 4, 1015 a 10).
In questo modo il nuovo concetto di forma temperava insieme gli eccessi del platonismo e fermava il passo al meccanicismo fisico di Democrito ed Empedocle, affermando il predominio nella fisica, biologia, non meno che nello sviluppo della vita dello spirito, dei criteri morfologici e qualitativi sopra la materia ed i rapporti puramente quantitativi. La forma quindi è atto, sostanza ed essere “più della materia” (Met., VII, 3, 1 1029 a 29): principio che l'aristotelismo medievale esprimeva con la formula: “forma dat esse”, il quale però dalle diverse scuole veniva diversamente inteso. I seguaci di Avicebron estesero la dottrina della materia e forma universale e della molteplicità delle materie e forme cosmiche ad una “pluralità di forme” nello stesso individuo (scuola francescana antica) od almeno, per l'uomo, alla composizione di una “forma di corporeità ” e dell'anima spirituale (Scoto). E' in seno a questa scuola che prese piede l'opinione che anche la materia avesse un certo “atto” imperfetto e non fosse pura potenza: atteggiamento che, avvalorato dall'autorità di Suarez, non fu senza influsso sul dinamismo di Leibniz. Per s. Tommaso, che resta sul piano rigorosamente metafisico di Aristotele, forma e materia stanno nella tensione metafisica della contraddizione: l'unità dell'essere reale dipende dall'unità della forma sostanziale e ripugna alla stessa divina potenza di attribuire alla materia un qualsiasi atto (Quodlib., III, q. I, a. I).
Il punto di vista aristotelico, che pareva sommerso dalla fisica galileiana, è rimesso in onore in vari settori della cultura contemporanea. Nella ontogenesi dei viventi, i processi di organizzazione obbediscono ad una legge che è interiore ai medesimi e che ha il significato e l'efficacia di una forma o entelechia (H. Driesch). Nello sviluppo e nell'articolarsi delle funzioni conoscitive, il contenuto degli oggetti non è dato dalla somma di contenuti elementari semplici (associazionismo), ma si presenta immediatamente come un “tutto” organizzato che ha carattere di forma (Gestaltpsychologie). E vi sono forme visive, acustiche, tattili.... forme statiche e forme di movimento: per tutte vale la legge generale che la forma è altra cosa, o meglio, è qualcosa di più della somma delle parti (Ehrenfels). Solo che alla posizione apriorista che attribuisce le forme (Gestalten) alla “produzione” intellettuale (scuola del Meinong), ed all'ipotesi dell'“isomorfismo” secondo la quale le forme percettive sarebbero l'effetto univoco di processi psico‑fisici svolgentisi nella zona corticale (scuola del Wertheimer), i neoaristotelici distinguono, in accordo con la stessa esperienza, fra forma e significato. Forma può essere un contenuto sensoriale immediato (“sensibili comuni” di Aristotele), ma il significato che è ben più importante della forme appartiene alle funzioni superiori dell'intelligenza.
Nell'ambito della filosofia le “forme pure a priori” (Denkformen) di Kant segnano la deviazione dal primitivo concetto aristotelico che si è mostrata più gravida di conseguenze, fino ad abolire con l'hegelismo attualista il concetto stesso di forma a favore di un “atto” che fa se stesso e che non conosce legge alcuna fuori di sé. Nella moderna storiografia la forma ha significato di “tipo” di una cultura o civiltà (le Grundformen di Dilthey, le Lebensformen di Spranger, ecc.).

(Mons. Antonio Livi) (dal latino forma, che traduce con metatesi il greco morphé, forma, da cui "metamorfosi", "morfologia", ecc.): nella metafisica aristotelica designa "l'essenza di ogni cosa e la sostanza prima", oppure "l'atto primo di un corpo". Secondo Aristotele, tutte le cose materiali sono costituite da due principi fondamentali: la materia, principio passivo, e la forma, principio attivo (di qui la definizione: "atto primo di un corpo"). Nella filosofia moderna il termine ha assunto però un significato meno tecnico ed è divenuto sinonimo di "figura" o di "struttura" (in tedesco Gestalt). Per Kant, lo spazio, il tempo e le categorie costituiscono le forme pure o "a priori" della conoscenza sensibile.

(P. Battista Mondin) E' uno dei termini chiave della metafisica aristotelico-tomistica, dove designa "l'essenza di ogni cosa e la sostanza prima", oppure "l'atto primo di un corpo". Secondo Aristotele, tutte le cose materiali sono costituite da due principi fondamentali: la materia - che è il principio passivo - e la forma - che è il principio attivo. Per san Tommaso, il grado massimo di perfezione di una cosa non è dato, come per Aristotele, dalla forma bensì dall'atto dell'essere. Per questo motivo san dà a tale atto il nome di quasi-forma.

ESSENZA - ESISTENZA



(P. Cornelio Fabro) ESSENZA. I. Indica la natura di una cosa come tale e quindi di ciò che è significato nella sua definizione. Se l'“ente” (vedi) è il concreto sussistente che esiste o che ha l'atto di essere, l'essenza è la speciale “natura” che quest'atto fa esistere. L'essenza esprime nel suo contenuto una “partecipazione” della infinita perfezione della divina natura; essa determina ad ogni essere il proprio posto nella gerarchia degli esseri; ne fonda, dirige e attua le rispettive possibilità di sviluppo. Espressione della eterogeneità fondamentale del reale, le essenze sono fisse e immutabili tanto nel tempo come nello spazio: si succedono perciò in modo discontinuo, per scarti che sono gradi distinti di perfezione nell'àmbito dell'essere: come piombo, quercia, cavallo, uomo... Aristotele accettava, con opportune rettifiche, la tradizione dell'intellettualismo platonico ‑ pitagoreo “essere le essenze in qualche modo come numeri” (Met., IX, 3, 1043 b 32 sgg.). Così le essenze fondano ad un tempo la stabilità dell'essere e l'oggettività del conoscere di qui il termine neolatino di “quiddità” (quidditas “quid sit aliquid”). E. si dice tanto della sostanza come dell'accidente, ma della sostanza in senso principale e dell'accidente in senso secondario e secondo analogia, poiché come l'accidente che è non tanto “ens” quanto “ens entis” partecipa dalla sostanza la ragione di essere, parimenti la sua e. dipende da quella della propria sostanza così che nella sua definizione l'accidente include la sostanza così come soggetto e fondamento nonché principio attivo radicale (s. Tommaso, In VII Met., lect. 4a, n. 1334). Dio propriamente non ha essenza ma è Atto puro di essere al di là di ogni definizione.

II. Nel suo doppio aspetto, ontologico e logico, l'essenza ammette vari gradi di considerazione. C'è anzitutto l'essenza singolare e individuale, la umanità di Pietro o di Paolo. Nel realismo aristotelico essa è la sola ad esistere veramente nella realtà ed è quindi su di essa che devono fondarsi le ulteriori determinazioni della considerazione scientifica. Poiché nelle sostanze singolari l'essenza si trova moltiplicata e individualizzata, Aristotele non ha potuto fermarsi alla sola “forma” come Platone, ma ha dovuto introdurre quale con‑principio dell'essenza la materia.

Perciò le cose sensibili hanno un'essenza composta di materia e forma, l'unione delle quali dà la specie completa: l'uomo, come tale, non è anima soltanto, ma la sintesi di anima e di corpo (Met., VI, 1, 1025 b 31 sgg., e VIII, 4‑6, 1045 b 3 sgg.). La singolarità tuttavia (l'“umanità” come si trova in Pietro, realizzata con “questa” anima quale atto di “questo” corpo) non può essere un attributo dell'essenza come tale ma va riferita a principi extraessenziali (PRINCIPIO DI INDIVIDUAZIONE).

Sul piano rigorosamente metafisico, l'essenza è propriamente definita “forma” di essere, e non esige come tale la presenza della materia: infatti al culmine della scala degli esseri stanno le “forme” del tutto immateriali (puri spiriti). E nello stesso mondo sensibile l'essenza è determinata dalla forma; l'uomo è tale e. e non altra, per via dell'anima spirituale che è la sua forma; che anche il corpo abbia una natura speciale, ciò è a sua volta un'esigenza ed un effetto della stessa anima a cui è destinato poiché ciò che determina è l'atto e non la potenza. Cosicché per Aristotele l'essenza, nella sua assolutezza metafisica, è da dire “senza materia” (Met., VIII, 7, 1032 b 14). L'anima (forma partis) è l'atto di un'essenza composta, atto della materia: la “humanitas” invece dice la realtà dei tutto (forma totius) che abbraccia e materia e forma in sintesi che è grado, modo e forma di essere fra le altre forme espresse dalle altre essenze (s. Tommaso, In VI Met., lect. 9, n. 1469).

Nell'ordine logico l'essenza è data dalla definizione (v.). Come l'essenza ha parti reali, la materia e la forma, così la definizione ha parti logiche che sono il genere e la differenza di cui risulta la specie che è l'essenza completa (Met., VIII, 9, 1034 b 20 S99.). Si noti però che genere e differenza sono “parti formali” dell'essere di cui l'uno esprime l'elemento determinabile, l'altra l'elemento determinante, e sotto questo aspetto soltanto, cioè indirettamente, corrispondono alla composizione di materia e forma. Fra gli Scolastici, coloro che con Avicebron tengono una corrispondenza diretta fra l'ordine logico e l'ordine ontologico, ammettono la composizione di materia e di forma anche negli spiriti puri. Secondo s. Tommaso, invece, le sostanze intellettuali sono assolutamente semplici nell'ordine dell'essenza, non però nell'ordine dell'essere nel quale sono composte realmente di essenza e di atto di essere e quindi di sostanza e di facoltà, a differenza di Dio che è semplice sotto tutti gli aspetti (Sum. Theol., I, q. 54, a. 1‑3).

Nella filosofia cristiana, che non accetta la creazione “ab aeterno”, tale perennità ha significato puramente ideale perché di fatto il mondo è cominciato ed in esso ogni creatura: e perciò ogni essenza, sotto l'aspetto della durata esistenziale, ha il valore corrispondente alla propria natura: di durata finita sotto ogni aspetto, se la natura è contingente (essenze materiali corruttibili), di durata infinita (essenze immortali) a parte Post, se la natura è spirituale (angeli e anime umane).

(Mons. Antonio Livi) è sinonimo di natura. Ed è conosciuta mediante il concetto o universale. L'essenza è l'elemento formale costitutivo di una cosa, ossia ciò che la assegna a una determinata specie, e allo stesso tempo la separa da tutte le altre cose e la limita (perché è quello e non altro: donna e non uomo). L'essenza non basta da sola a formare l'essere di un ente: essa presuppone l'atto di essere. I due principi, nell'esistente concreto, appaiono fisicamente uniti, ma si distinguono metafisicamente. Secondo san Tommaso, essenza ed essere si trovano nel rapporto di potenza e atto, perché solo l'essere conferisce attualità ad un ente possibile. Essenza ed essere si identificano solo in Dio, nel senso che Dio è atto puro, senza un'essenza che lo delimiti e lo circoscriva.


(P. Cornelio Fabro) ESISTENZA. E' l'atto, il fatto o la ragione per cui si può dire che qualcosa “c'è ”, e si risponde alla domanda “se c'è ” (se c'è stata o ci sarà).

Nel significato generico di “ragione”, l'esistenza è l'appartenenza del predicato al soggetto in una proposizione e quindi ciò che sta “a fondamento” di quel movimento dello spirito che li unisce (o li separa) nella affermazione (o negazione): l'esistenza è allora intesa come semplice rapporto concettuale astratto proprio della logica ed anche della matematica pura, della filosofia dei valori (cf. W. Burkamp, Begriff und Beziehung, Lipsia 1927, § 49 sgg.). Ha per suo contrario la non esistenza, che è la “ripugnanza”, ovvero la contraddizione fra i concetti.

L'esistenza come fatto è data dalla constatazione sperimentale onde qualcosa può essere indicato e individuato come una realtà singolare nella storia e nell'esperienza. E' il significato più corrente di e. usato spesso nella forma concreta (l'esistente, le e.) e accentua le caratteristiche di individualità (circostanze, fatti, situazioni ... ) di qualcosa o di qualcuno su cui si possa fondare il diritto di rivendicazione, di accusa o di difesa. Il suo contrario è la non e. come “possibilità” non ancora realizzata.

A questo senso di “realizzazione del possibile” si fermò la maggior parte delle filosofie tradizionali benché non tutte l'abbiano concepita allo stesso modo. Così per alcuni è la singolarità reale in opposizione all'essenza astratta; per altri è la realtà contingente della creatura in quanto dice relazione alla causalità divina; per altri ancora è una modificazione dell'essenza singolare onde questa è tratta “fuori” della possibilità: ex‑sistentia, etimologia rimessa in onore dagli esistenzialisti. E come ora fanno questi (cfr. M. Heidegger, Sein und Zeit, 5a ed., Halle sulla Saale 1941, §9, p. 42 seg.) si arrivò a distinguere lo esse essentiae dallo esse exsistentiae (F. Suarez, Disput Met., disp. 31, sect. VI), distinzione che rese ancora più intricata la controversia medievale sulla distinzione fra essenza ed e.

Nel tomismo l'esistenza è lo esse come “actus essendi” della essenza individua singolare; è quindi una partecipazione dell'attualità divina ricevuta nella essenza con la quale forma una composizione reale come di atto e potenza (Contra Gent., II, 52‑54). La e. come fatto, come realizzazione di esperienza o di storia è una risultanza, una conseguenza fenomenologica di tale unione ontologica. Perciò per s. Tommaso, lo esse è ciò che vi è di più profondo in ogni cosa: “Esse est illud quod est magis intimum cuilibet et profundius inest, cum sit formale respectu omnium quae in re sunt” (Sum. Theol., I, q. 8, a. 1).

La filosofia moderna pare sia rimasta all'oscuro della nozione tomista. Fondamentale, per la filosofia posteriore, è la nozione leibniziana, che prende la e. come modo o posizione della cosa: “Exsistentia a nobis concipitur tanquam res nihil habens cum essentia commune, quod tamen fieri nequit, quia oportet plus inesse in conceptu exsistentis quam non exsistentis, seu exsistentiam esse perfectionem; cum revera nihil aliud sit explicabile in exsistentia, quam perfectissimarn seriem rerum ingredi; ita eodem modo concipimus positionem ut quiddam extrinsecum, quod nihil addat rei positae, cum tamen addat modum quo afficitur ab aliis rebus” (L. Couturat, Opuscules et fragments de Leibniz, Parigi 1903, P. 9). A questa nozione “estrinsecista” si avvicina la nozione che della e. ebbe Kant nel periodo precritico. La e. è ciò che in una cosa non può essere ridotto a concetto, ad elemento della essenza, ciò quindi “che non può mai essere un predicato”. La e. è “la posizione assoluta di una cosa”; e per Kant, che qui s'accosta inconsciamente alla posizione tomista, la e. è ciò che alla fine fonda la possibilità per modo che “la possibilità intrinseca di cose presuppone una qualche e.” (L'unico argomento possibile per una dimostrazione della esistenza di Dio, in Scritti minori, trad. it. di P. Carabellese, Bari 1928, P. 44). Nozione del tutto realista alla quale Kant rimase sempre fedele come ne fa fede l'esempio dei 100 talleri e la sua critica all'argomento ontologico: il difetto di Kant fu di essersi accontentato di questa cruda positività senza indagare oltre i rapporti fra la essenza e la esistenza onde arrivò a tacciare di argomento ontologico anche le prove a posteriori della e. di Dio di s. Tommaso.

La distinzione fra l'ordine logico e ontologico, che comunque era conservata nelle filosofie dualiste, scompare nel monismo razionalista di Spinoza prima e poi di Hegel. Per Spinoza la e. è un predicato della sola “Sostanza” a cui appartiene come esigenza necessaria (Ethica, parte I, prop. VII). Nella filosofia hegeliana si separarono la e. e la realtà: la e. è il particolare, il fenomeno esterno che è reale solo in quanto è sussunto nella Idea, come elemento del tutto che è lo Spirito nello sviluppo della sua storicità (Scienza della logica, II, sez. 2, cap. I). La e. quindi per Hegel caratterizza l'“apparire” della essenza, è la immediatezza che sorge dalla essenza, per cui nella e. si realizza la “unità indistinta” della essenza con la sua immediatezza.

Nella filosofia contemporanea varie direzioni di pensiero che si qualificano come “filosofie della e.” hanno fatto della e. il pilastro della opposizione al monismo panteistico e dialettico: la e. vi è intesa come la realtà primaria della “persona” singola isolata nella sua propria situazione nel mondo ed impegnata nei suoi compiti: “ ec‑sistere ”, cioè il mettersi fuori con l'atto della decisione personale.

(P. Battista Mondin) Nel linguaggio più comune il termine esistenza denota semplicemente il fatto che qualche cosa è. In filosofia ha acquisito valenze semantiche più precise soprattutto nel pensiero di san Tommaso e di Heidegger. Per san Tommaso l'esistenza (più esattamente l'actus essendi, l'atto di essere) è ciò che conferisce attualità ad una essenza e, in tal modo, dà origine all'ente, il quale ha proprio nell'essenza e nell'esistenza i suoi due principi costitutivi metafisici supremi e la sua composizione estrema (che precede la stessa composizione aristotelica della materia e della forma). Per Heidegger l'esistenza è la proprietà dell'uomo di non essere chiuso dentro la sua essenza, ma di trovarsi fuori di sé (ex-sistere), incamminato verso le proprie possibilità.

SOSTANZA E ACCIDENTE



(P. Cornelio Fabro) SOSTANZA. Può indicare tanto la realtà effettiva e concreta cioè singolare (la “sostanza prima” della terminologia aristotelica), quanto l'essenza (vedi), sia nella sua struttura metafisica come nel suo contenuto nozionale e logico (“sostanza seconda ”; cfr. Cat., 5, 2 a 11 sgg.), o anche il “questo” particolare e il “cos'è” (Met., VIII, I, 1028 a II).

Per sostanza s'intende quindi il modo “principale” di essere, e quindi la prima categoria del reale, fondamento, causa e sostrato degli accidenti (vedi) sia propri come comuni. Perciò il significato di “soggetto” o “sostrato” varia per quanti sono i modi della sostanza stessa nell'ordine logico o reale ovvero: (1) in quanto la sostanza è realtà principale che sostenta gli accidenti la si dice allora in senso stretto (Met., VIII, 3, 1028 b 34); (2) lo stesso soggetto ultimo o materia prima; (3) nell'ordine logico l'universale ch'è la specie e il genere. In quanto poi indica la consistenza di essere, (4) la sostanza è la realtà in atto che si può indicare come l'essenza in sé completa (sintesi, nell'ente corporeo, di materia e forma (Met., VIII, 3, 1033 b 1), o infine (5) il singolare sussistere ch'è la sostanza di pieno diritto nella quale si attua il reale nelle sue varie forme.

Nella polemica antiplatonica (Met., I e VII‑VIII) Aristotele sostenne che la sostanza va indicata nella realtà sensibile con la quale l'esperienza ci mette in continuo contatto e dalla quale di necessità sempre dipendiamo sia per il conoscere come per l'agire. Il problema platonico quindi della “comunione dei generi”, rimasto in Platone sempre oscillante, diventa nell'aristotelismo il problema della “dualità” di materia e forma nell'essenza, e di genere e differenza nella definizione. Ma la dualità dei princìpi non distrugge, che anzi garantisce l'unità del reale da una parte e del concetto dall'altra. Tale unità è infatti garantita, nel reale, dall'unità della forma e nella definizione dalla differenza specifica ch'è costitutiva dell'essenza e che corrisponde alla forma. A questo modo nell'aristotelismo è chiuso il processo all'infinito (che resta invece aperto nella dialettica platonica) perché la forma è immanente al singolare sensibile, onde la materia informata e la forma attuante la materia coincidono nell'unità dell'ente (Met., VIII, 51 1045 b 18). Materia e forma quindi nella struttura della sostanza (e della definizione) non si trovano con parità di diritti, ma la forma domina la materia e l'attira nel suo grado ontologico: “Unumquodque ponitur in sua specie per formam...” (s. Tommaso, In VII Met., lect. II, n. 1531; cfr. Sum. Theol., I, q. 85, a. 1 ad 2).

Nella struttura metafisica dell'essenza corporea, forma e materia (anima e corpo) sono come il concavo e il convesso e non due elementi che esigono un “principio intermedio” di collegamento. Quest'ultima concezione tradisce un dualismo che concepisce separatamente i due principi e, infine, l'incomprensione della metafisica dell'atto e della potenza: “Ultima materia, quae scilicet est appropriata ad formam, et ipsa forma, sunt idem. Aliud enim eorum est sicut potentia, aliud sicut actus.... Et sic non oportet ea uniri per aliquod vinculum” (In VIII Met., lect. 5, n. 1767). La teoria del “vincolo sostanziale” fu sviluppata da Leibniz e dalla sua scuola, ma i primi indizi espliciti compaiono in Suarez da cui con molta probabilità lo stesso Leibniz prese l'ispirazione (come ha dimostrato Ch. Boehm [Le vinculum substantiel chez Leibniz, Parigi 1938] il quale corregge su questo punto la tesi di M. Blondel [Une énigme historique: Le “vinculum substantiale” d'après Leibniz et l'ébauche d'un réalisme supérieur, ivi 1930: è la trad. franc. della tesi latina del 1893). Per suo conto Leibniz elaborò una teoria della sostanza come “monade” in sé completa, così che ogni sostanza, anche materiale, è un mondo a parte; ciò che s. Tommaso dice degli angeli che ognuno è una specie a parte, secondo Leibniz “est de toutes les substances.... De plus, toute substance est comme un monde entier et comme un miroir de Dieu ou bien de tout l'univers, qu'elle exprime chacune à sa facon” (Discours de métaphysique, IX; ed. H. Lestienne, Parigi 1929, P. 37).

Più sobria nella sua esigenza teorica, la metafisica tomista elaborò il concetto di sostanza secondo il principio della “emergenza dell'atto” (Met., IX, 8, 1049 b 5; cfr. De an., II, 4, 415 a 18). La sostanza materiale ottiene la sua attualità e consistenza ontologica dalla forma (Quod1. I, q. IV, a. 6; cfr. Arist., De an., II, 4, 415 b 13). Di conseguenza le sostanza spirituali, che sono forme semplici senza materia, sono più perfette e consistenti delle sostanza materiali e perciò sono dette forme sussistenti o separate, e come tali sono più vicine a Dio ch'è l'essere puro sussistente (cfr. De spir. creat., a. I). Allora nella struttura ontologica della sostanza, col crescere della “sussistenza” diminuisce la ragione di soggetto o recettività rispetto agli accidenti; questi nelle sostanza spirituali sono ridotti alle sole qualità e attuazioni dell'intelletto e della volontà, mentre Dio è l'atto puro, pienezza di perfezione nell'assoluta semplicità.

La rottura dell'equilibrio della metafisica aristotelica dell'atto e della potenza già compiuta in Suarez, che non accetta il concetto tomista di potenza, mostra in Leibniz l'eliminazione della potenza come ricettività per intensificare la potenza come virtualità e attività. In Spinoza la “sostanza” esprime invece la sufficienza assoluta che comporta l'unità metafisica del reale nell'identità dei modi e attributi (estensione e pensiero, intelletto e volontà): “Per substantiam intellígo id quod in se est et per se concipitur: hoc est id cuius conceptus non indiget conceptu alterius rei, a quo formari debeat” (Ethica, ed. Gentile, Bari 1933, p. 3). Hegel in questo punto ha unificato il dinamismo leibniziano e l'unità spinoziana nella concezione della realtà come “processo” (cfr. Phan. d. Geistes, Vorrede, ed. J. Hoffmeister, Lipsia 1937, P. 45).

L'empirismo inglese invece ‑ per reazione al razionalismo ‑, riducendo la sostanza alla funzione di “sostrato”, portò alla dissoluzione dello stesso concetto dì sostanza Muovendo dal principio nominalista che il valore principale di realtà appartiene alla percezione immediata e che le “idee” non sono che il “residuo” mentale delle sensazioni, Locke afferma che le sostanza non sono propriamente conoscibili, né è possibile averne una nozione precisa (cfr. Essay, 1, 4, 18; ed. J. A. St. John, 1, Londra 1854, p. 196 sgg.). La nostra conoscenza della sostanza si riduce quindi a un'“idea complessa” e del tutto vaga di un certo qual ignoto sostegno degli accidenti (ibid., 11, 23, 3; ed. cit., 1, p. 424) e in concreto a un “intreccio (complication) o collezione dì quelle diverse idee semplici di qualità sensibili le quali di solito si trovano unite nelle cose che si chiamano cavallo o pietra” (ibid., p. 425): e ciò vale non soltanto per le sostanza materiali ma anche per le sostanza spirituali e per la stessa nostra anima o mente (ibid.). Per uscire dal punto morto, Berkeley negò il concetto di sostanza materiale e con ciò la nozione di sostrato e la teoria lockiana delle “idee complesse” e la distinzione delle qualità primarie e secondarie: l'esistenza delle cose s'identifica con il loro farsi percepire (esse est percipi), perciò il concetto di sostanza materiale o substratum è contraddittorio (Principles, §3‑23). L'unica sostanza è l'anima la quale si attesta come “causa” dei sentimenti, idee, nozioni che noi continuamente proviamo o produciamo in noi stessi (ibid., § 25). Infine Hume (v.), muovendo dalla riduzione fatta dal Berkeley della sostanza spirituale al concetto di “causa” delle proprie modificazioni, sostenne che la nozione di causa non ha alcun fondamento né a priori, né a posteriori nella nostra conoscenza perché ci manca l'impressione corrispondente. La causa e con essa la sostanza si riduce a una convinzione naturale (belief), a un sentimento istintivo di cui non conosciamo l'origine (Treatise on human nature, parte la, sez. 7a; parte 4", sez. 3a; ed. Selby‑Bigge, Oxford 1928, pp. 17 sgg‑, 219 sgg.; v. anche Appendix, p. 633). Nella metafisica dell'immanenza la sostanza o è assorbita senza residuo nel divenire del Tutto della ragione o storia universale (monismo panteista) o si risolve tutta nel residuo stesso ch'è il fatto singolo del divenire (fenomenismo); nella metafisica della trascendenza invece la sostanza ha un fondamento assoluto nella “forma” che struttura il singolo nel tempo e nello spazio e la forma a sua volta si fonda nell'intelletto divino da cui ogni essenza trae la prima origine.

(Mons. Antonio Livi) (dal latino sub-stare = ciò che sta sotto, a fondamento): indica l'elemento stabile e permanente di ogni singolo ente, ciò che costituisce la sua identità nel tempo, malgrado i mutamenti, i quali riguardano gli accidenti. La s. di natura intellettuale è chiamata persona.

(Mons. Antonio Livi) ACCIDENTE. (dal latino accidens = ciò che sopravviene o si aggiunge): è un termine tecnico copiato da Aristotele per distinguere nell'ente empirico l'elemento mutevole da quello sempre identico a sé stesso, cioè la sostanza. Secondo la definizione aristotelica, è da considerare a. tutto ciò che accompagna la sostanza e la qualifica (vedi essenza) o ne segna il divenire. La sostanza ha un proprio atto di essere e pertanto sussiste in se stessa, mentre l'a. deriva il proprio atto d'essere dalla sostanza alla quale inerisce. Secondo la classificazione di Aristotele, tutte le sostanze (materiali) sono accompagnate da nove a. principali: qualità, quantità ("estesa", cioè spazio, e "discreta", cioè numero), azione, relazione, passione, luogo ("dove"), tempo ("quando"), situazione e abito (rivestimento o possesso).

(P. Battista Mondin) Secondo la definizione aristotelica, che è anche quella seguita da san Tommaso, accidente è tutto ciò che segue oppure si aggiunge alla sostanza, la quale possiede un proprio atto di essere e perciò sussiste in se stessa; l'a. non dispone di un proprio atto d'essere, ma lo riceve dalla sostanza alla quale inerisce. Secondo la definizione di Aristotele e di san Tommaso, tutte le sostanze materiali sono accompagnate da nove a. principali: qualità, quantità, azione, relazione, passione, luogo, tempo, situazione e rivestimento.

ANALOGIA-ANALOGICO



(Card. Pietro Parente) Etimologicamente (dal greco “sopra” e “discorso, ragione”) l'analogia suggerisce l'idea di un rapporto tra due termini, quindi di proporzione e di somiglianza. Come tale essa è alla base di tutti i nostri ragionamenti, che si compongono di giudizi (confronti tra due idee), e appartiene perciò in modo particolare al dominio della filosofia, della teologia e del diritto.

1. L'ANALOGIA NELLA FILOSOFIA E NELLA TEOLOGIA.
Filosoficamente l'a. è affinità di concetti e di termini (logica), fondata sul mutuo rapporto di vari modi di essere (metafisica). Secondo la migliore scolastica la nozione di ente, universalissima, non si attribuisce nello stesso modo a tutte le cose, perché ogni cosa differisce dall'altra per il contenuto, che è diversamente graduato in quanto è più o meno ricco di essere. Pertanto l'ente non si può attribuire a tutte le cose univocamente (secundum eamdem rationem), ma solo analogicamente (secundum rationem similem). Si sogliono distinguere due forme principali di analogia: una detta di attribuzione, l'altra di proporzionalità. L'analogia di attribuzione consiste nell'attribuire a due o più soggetti una proprietà, che formalmente è in un soggetto di ordine superiore, con cui gli altri hanno una relazione. Ad es. la sanità è propriamente dell'animale, ma si attribuisce anche alla medicina e al colore, che sono causa o segno di sanità nell'animale. L'analogia di proporzionalità esprime una proprietà che è in vari soggetti secondo differente proporzione; ad es. la visione si attribuisce all'occhio, all'intelletto umano, all'intelletto di Dio, ma evidentemente, nonostante la somiglianza, c'è differenza fra questi tre modi di vedere. Questa a. si può tradurre in forma matematica come la seguente: occhio : corpo = intelletto : anima.

Se una proprietà, che è formalmente in un soggetto, si attribuisce per un traslato ad un altro, l'analogia sarà di proporzionalità impropria o metafisica; ad es., il riso, proprio dell'uomo, attribuito al prato.

Nelle sue varie forme, l'analogia rivela l'innata tendenza dell'intelletto umano ad unificare la molteplicità dei mondo reale e del mondo logico, cogliendo negli esseri qualche nota comune.

Essa oscilla tra l'equivocità (uno stesso termine attribuito a due soggetti in due sensi del tutto diversi, come ad es. “scorpione ”, detto di un animale e di una costellazione) e l'univocità (uno stesso termine attribuito a più soggetti in senso assolutamente unico, come ad es. “ uomo”, detto di tutti gli individui della specie umana).

L'a. sta dunque nell'attribuire a due o più soggetti una qualità con significati né del tutto identici né del tutto diversi, ma simili secondo differente grado e modo. Gli analogati hanno pertanto una ragione formale comune, come la vita nella pianta, nell'animale, nello spirito umano, ma proporzionatamente diversa secondo il modo.

L'importanza dell'analogia aumenta nelle questioni teologiche, specialmente nel problema fondamentale del valore della nostra cognizione intorno a Dio. Fin dal secolo IV questo problema fu agitato nella controversia eunomiana tra Eunomio, che riduceva gli attributi divini a parole vuote, inette ad esprimere comunque un Dio trascendente, e s. Basilio e s. Gregorio Nisseno, i quali sostenevano che i concetti da noi formati intorno a Dio sono inadeguati ma non falsi né vuoti di senso.

La questione si riaccese più forte all'inizio della scolastica (sec. XI), quando il filosofo giudeo Mosè Maimonide (m. nel 1204), nel libro La guida dei dubbiosi, esaltando l'incomprensibilità e l'ineffabilità di Dio assumeva un atteggiamento nomìnalistico e agnostico in teologia; per lui ogni attributo divino indicava soltanto una qualità causata da Dio e messa nelle creature. Quindi: Dio è buono = Dio è causa di bontà; ma non sappiamo se la bontà sia in Dio.

S. Tommaso intuì tutta la gravità del problema e raccogliendo gli elementi sparsi qua e là nei secoli precedenti, aprì una via sicura di soluzione con uno studio approfondito dell'analogia. Egli parte dal concetto cristiano di creazione, per cui Dio è causa prima dell'universo. Tra causa ed effetto c'è naturalmente un nesso di somiglianza, che nelle creature ha carattere generico e specifico e quindi segue la linea dell'univocità, come ad es. tra padre e figlio. Ma siccome Dio trascende infinitamente tutto il creato coi suoi generi e le sue specie, tra lui e la creatura la somiglianza non può essere perfetta, univoca, ma approssimativa e cioè analogica. La perfezione infinita di Dio, unica e semplicissima, si riflette, sia pure pallidamente, e si rifrange in certo modo nella gamma indefinita degli esseri creati dalla sua onnipotenza. L'intelletto umano dalla considerazione delle creature si eleva legittimamente ad affermare non solo l'esistenza di Dio, ma anche alcunché della sua intima essenza, di cui le creature sono una lontana imitazione.

Per questa via si formano quei concetti che costituiscono gli attributi divini (bontà, sapienza, giustizia, ecc.) e che esprimono imperfettamente la natura di Dio, come gli esseri creati imperfettamente la rappresentano. Gli attributi dunque, pur essendo inadeguati, hanno il loro valore, perché significano qualità che si trovano veramente nelle creature e in Dio secondo proporzioni diverse.

Alla luce della dottrina tomistica l'analogia della nostra cognizione intorno alle perfezioni divine si può ridurre a questi capisaldi :

1. C'è rapporto di somiglianza, fondato sulla causalità, tra il Creatore e le creature, in forza del quale noi possiamo conoscere in qualche modo Dio attraverso la natura creata.

2. La migliore espressione di questo rapporto è la proporzionalità non propriamente matematica, cioè quantitativa, ma metafisica.

3. L'attributo divino esprime una proprietà formalmente comune a Dio e alle creature, ma diversa per il modo di essere, perché mentre nella creatura la proprietà si distingue dall'essenza ed è perciò partecipata e limitata, in Dio ogni proprietà s'identifica con l'essenza e quindi vi sta in modo infinito.

4. Non tutte le proprietà delle creature possono attribuirsi a Dio, perché alcune, come ad es. l'estensione, ripugnano alla sua natura di Atto puro. Ci sono proprietà che nel loro concetto formale non includono imperfezioni, come la bontà: e queste si attribuiscono formalmente a Dio ma in un modo più alto che alle creature. Ci sono poi proprietà che includono imperfezioni, come la vita, la cognizione, e queste si attribuiscono a Dio soltanto se purificate da ogni ombra d'imperfezione.

Pertanto il linguaggio teologico, in base alle leggi dell'analogia, esprime l'essenza divina o per via di negazione, se rimuove da Dio qualche proprietà creata che suona imperfezione, o per via di affermazione, se attribuisce a Dio una proprietà positiva che si riscontra come perfezione nella creatura, o per via di eminenza, quando corregge l'affermazione distinguendo il modo di essere di una proprietà nelle creature del modo superiore secondo cui quella stessa proprietà è in Dio.
Si ha dunque questa gradazione :

- Dio è incorporeo (sì nega l'imperfezione della materialità);

- Dio è sapiente (si afferma una proprietà come formalmente presente in Dio);

- Dio non è sapiente (cioè allo stesso modo della creatura);

- Dio è supersapiente (in modo infinitamente superiore alle creature).

Così la dottrina cristiana dell'analogia, eliminando l'agnosticismo e l'antropomorfismo, valorizza la cognizione umana intorno a Dio, ma ne segna anche i limiti di fronte alla divina trascendenza.

(Mons. Antonio Livi) (dal greco anà-logia = rapporto, proporzione): in logica designa sia una forma di ragionamento (ragionamento per a.) sia un tipo di predicazione (la predicazione analogica). Il ragionamento per a. si distingue sia dalla deduzione che dall'induzione, in quanto procede dal particolare al particolare (da un caso simile ad un altro caso simile), mentre la deduzione procede dall'universale al particolare e, viceversa, l'induzione dal particolare all'universale. Come forma di predicazione, l'a. si distingue dall'univocità e dall'equivocità. Mentre nell'univocità un termine viene applicato a molti soggetti in senso identico, e nell'equivocità in senso totalmente diverso, nell'a. è applicato in senso parzialmente eguale e parzialmente diverso. Si distinguono tre tipi principali di analogia predicativa: di attribuzione, di proporzionalità propria e di proporzionalità metaforica.

(Regis Jolivet) PROPORZIONE, CORRISPONDENZA.

I. Psicologia. Rapporto di rassomiglianza.

II. Ragionamento per analogia: consiste nel concludere all'identità di due o più termini in forza della loro rassomiglianza parziale ( = analogia), o a due somiglianze non ancora osservate a partire da somiglianze conosciute.

III. Logica. Rapporto stabilito tra realtà essenzialmente diverse, ma che hanno qualcosa in comune (opposto a univocità ed equivocità). Si divide in: Analogia di attribuzione; è quella di un termine o di un concetto che convengono ad una o a più cose in ragione del loro rapporto ad un'altra, alla quale soltanto il termine o il concetto si applicano propriamente e principalmente. Così il termine sano si dice propriamente e principalmente del corpo (attribuzione intrinseca); ma per analogia si applica ugualmente all'alimento, al clima, o al volto che esprime la salute del corpo (attribuzione estrinseca). Il corpo è l'analogato principale; l'alimento, il clima, il volto sono un analogato secondario. Analogia di proporzionalità è quella di un termine o di un concetto che convengono a più cose in ragione di una somiglianza di rapporti. Così si dice che la verità è per l'intelligenza ciò che la luce del sole è per gli occhi del corpo.

IV. Sofisma della falsa analogia: consistente nel concludere da un oggetto all'altro, nonostante la loro differenza essenziale, partendo da una somiglianza accidentale.

[Analogo. Logica. Che comporta un'analogia e si dice di un concetto che riguarda realtà essenzialmente diverse, ma che tuttavia tra loro un rapporto, avendo qualche cosa in comune. (Osservazione) Questo termine è intermedio tra l'equivoco e l'univoco e designa una nozione che si applica a più soggetti in un senso né totalmente identico né totalmente differente]
 
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