| Caro Francesco, mi scuso, innanzi tutto, con Lei, per il ritardo della risposta, ma ieri sono stato occupato per tutta la giornata.
In parte, le mie obiezioni intendevano rivestire il senso giustamente intuito da Dante, ma desidererei ulteriormente aggiungere qualche altra considerazione.
Come scrivevo nel mio precedete messaggio, taluni dei comportamenti da Lei indicati come moralmente neutri (già lo hanno rilevato anche altri postanti ed anch'io lo avevo accennato) corrispondono a gravissimi peccati; tuttavia, altre situazioni da Lei indicate (quali: la delocalizzazione delle attività produttive o - in particolare, se riferita all'Italia - la cosiddetta elusione - che concettualmente non coincide con l'evasione - fiscale) certamente no; analizziamo brevemente la prima di queste condotte.
Una preliminare premessa: il fenomeno della cosiddetta globalizzazione dei mercati non costituisce certamente, come qualcuno fingerebbe oggi di credere, un fenomeno recente; già nelle sepolture del neolitico poste in Puglia, per esempio, si rinvengono numerosi reperti in ambra, ciò posto, giacché l'ambra si rinviene presso le rive del Mar Baltico, questo viene a dimostrare come, già a quell'epoca, esistesse un sistema (diremmo oggi integrato) di scambî che, dal Mar Baltico forniva regolarmente le merci sino in Puglia se non oltre e viceversa; ancora, l'uso della seta che, nell'epoca antica, veniva prodotta esclusivamente in Cina, risultava diffuso in aree (quale quella romana, già nell'epoca tardo repubblicana) geograficamente assai remote, rispetto a quella di produzione.
In breve, sino alla Prima Guerra Mondiale, il fenomeno del mercato veniva globalmente inteso con una dimensione spaziale pressoché coincidente con l'intiero orbe terracqueo (fra i moltissimi, in questo senso, si rivelerebbe interessante la lettura di SCHMITT, Il nomos della terra, Milano, 1991) ed i dazî ed i provvedimenti di limitazione alle importazioni venivano considerati come fenomeni assolutamente eccezionali e temporanei.
Ora, ciò premesso, l'imprenditore, per poter continuare a svolgere la sua professione (che non coincide, nemmeno parzialmente, con quella degli enti d'erogazione o associazioni di beneficenza che dir si vogliano) può essere obbiettivamente costretto a delocalizzare la propria attività produttiva, soprattutto allorquando il suo Paese d'origine non lo ponga nelle condizioni di potere competere nel mercato. Ciò accade ogni qual volta lo Stato (come è costantemente accaduto in Italia; qualche miglioramento, in questo senso lo si stava vedendo, ma, stando all'ultima finanziaria, stiamo repentinamente tornando indietro) adotti politiche fiscali tali, da rendere fuori mercato il prezzo finale dei beni o dei servizî prodotti od offerti al pubblico.
A questo punto, stando alle Sue riflessioni, delle due l'una: o l'imprenditore moralmente sbaglia, per il fatto stesso di esercitare l'attività d'impresa, o, di fatto, deve cessare la sua attività, salvo che lo Stato faccia pagare all'intiera collettività il costo delle proprie impostazioni ideologiche, finanziando (in vario modo) un'attività che d'imprenditoriale conserva solo il nome e che, quindi, non producendo più ricchezza, si trova altresì a costituire una voce di debito nelle poste di bilancio del pubblico erario. Non a caso, nella costanza della politica economica della cosiddetta Prima Repubblica, a detta dello stesso ISTAT, l'economia italiana riusciva ancora ad arrancare faticosamente, soltanto in grazia: del lavoro nero e dell'evasione fiscale ...
Da sempre, i capitali hanno costantemente scelto la loro allocazione, presso quei Paesi che, sul piano legale e tributario, offrissero loro la migliore possibilità di rendita e, parimenti, le attività economiche si sono sempre situate ove trovassero le più soddisfacenti condizioni per la loro esplicazione.
L'illusione - propria dei Paesi socialisti - di potere contenere i fenomeni del mercato all'interno dei proprî confini nazionali ha portato ad una sola conseguenza: la miseria generalizzata delle popolazioni. A questo proposito un solo esempio concreto, le due Coree, medesima pololazione, medesime situazioni climatiche, medesime materie prime: l'una (quella del Sud), seguendo le dinamiche del mercato, riesce a concorrere con il Giappone, l'altra (quella del Nord) perseguendo il modello di economia sociale (o socialista o collettivista che dir si voglia) si trova letteralmente all'inedia.
Di terze vie dell' economia si è parlato da tempo immemore, ma, premesso il fatto che i modelli economici (come qualsiasi altro modello teorico, lo rilevava già Hegel, con riferimento alle forme di Stato) non si presentano mai allo stato puro, nell'esperienza storica, di una terza via di sistema economico non si è mai potuta vedere nemmeno l'ombra (in Italia, ci aveva tentato anche il fascismo, con la prefigurazione - fallita nella pratica - del sistema corporativo) e giacché, come osservava de Maistre, la Storia altro non è che politica sperimentale, ciò vuole probabilmente significare che non di una realistica ipotesi si tratti, ma di una mera utopia, il cui padre (secondo la teologia classica) è lo stesso Maligno.
Sotto il profilo morale - lo accenno appena per inciso - posto che uno dei due sistemi economici produce solo miseria e l'altro ricchezza (anche se, certo, per molti, ma non proprio per tutti), non sarebbe più proficuo l'incentrarsi sul problema miglior utilizzo della ricchezza prodotta, anziché perdersi nella prefigurazione astratta di sistemi d'economia che, sulla carta, appaiono certamente (come dice qualcuno) equi e solidali, ma che poi (al di là di qualche isolatissima esplicazione che, in realtà, non corrisponde ad fenomeno economico, ma, in pratica, ad un atto di beneficenza) non si possono reggere a confronto con la realtà - pressoché naturale e comunque spontanea - data dal mercato? Analogamente, io ho sempre ritenuto che il danaro, in quanto mezzo, non può mai essere, in sé e per sé, buono o cattivo; se mai, potrà essere qualificato come buono o cattivo il fine del suo utilizzo.
In conclusione, non potendo razionalmente prefigurarmi - al contrario, probabilmente, di qualche catolico adulto - che l'esercitare attività d'impresa corrisponda, in sé e per sé, ad un'azione moralmente deplorevole, altrettanto non mi riesce di poter considerare come moralmente deplorevoli le corrispondenti strategie (per altro, quasi obbligate) di gestione (o, come si usa dire oggi, di menagement).
Fra l'altro, sotto un profilo meramente pratico, a fronte del grave disagio (in senso oggettivo, non parlerei di vera e propria tragedia, in un Paese fornito di ammortizzatori sociali, finanziati, in larga parte, proprio dall'attività delle imprese) dei dipendenti delocalizzati (ma, in genere, i dipendenti dei settori non direttamente produttivi conservano il proprio posto di lavoro), si potrebbe validamente contrapporre il vantaggio di quelli, per così dire, delocalizzanti. Del resto, l'unica alternativa possibile sarebbe, assai probabilmente, quella data dalla progressiva chiusura dell'intiera struttura industriale; tutti a casa, dunque, addetti alla produzione, alla vendita, all'amministrazione, impiegati, tecnici, dirigenti e quant'altro ... e, ovviamente, nessuna ulteriore assunzione nell'ipotetico Paese di possibile delocalizzazione dell'impresa.
Il discorso, forse già sin troppo lungo, è stato qui condotto, ovviamente, solo per mero accenno ed ogni sua proposizione sarebbe, quindi, suscettibile di ben altri approfondimenti e svolgimenti. Se lo riterrà opportuno, non appena mi troverò dotato di un poco di tempo, mi permetterò di tracciare un lineamento di argomentazione circa il tema, da Lei accennato, riguardo alle tasse ed al loro (in Italia, molto teorico, mi permetterei d'anticipare) effettivo utilizzo a fini sociali.
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