Ecclesia Dei. Cattolici Apostolici Romani

L'abito ecclesiastico:, allontana o avvicina le persone a chi lo porta?

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Imerio
view post Posted on 11/9/2006, 15:21     +1   -1




CITAZIONE (Guardia Svizzera @ 11/9/2006, 15:54)
Sarebbe meglio per tutti ( modernisti e non) addossare le colpe al diavolo ;)

Allora, ci sarebbe proprio da affermare: «Povero Diavolo!», se non temessi (è solo un mero sospetto, sia ben chiaro!) che, in questo caso, non ci si trovi di fronte ad uno dei tanti artifici che rampollano dalla sua ben nota astuzia; per lo più, essi appaiono sempre volti a farci credere che, almeno nel caso concreto che stiamo considerando al momento, lui non c'entri nulla per davvero ... in altri casi, forse, ma chissà?

 
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TotusTuus
view post Posted on 12/9/2006, 10:30     +1   -1




A proposito di tradizioni religiose, riporto le dichiarazioni di due giovani sacerdoti - naturalmente vestiti in borghese ed in modo sciatto- appartenenti al movimento di Comunione e Liberazione. Entrambi sostengono con gioia che bisogna finirla con le tradizioni (processioni, confraternite, preghiere, novene, tridui....) bensì dare spazio solo a divertimento, merende e vacanze svago. Al grido di: Basta con le matusalemmate, i due sacerdoti si gloriano del fatto che la diocesi locale sia in preda a preti giovani appartenenti a movimenti in sintonia con le loro opinioni distruttrici. Uno di essi ha dichiarato in un'omelia che i fedeli che partecipano alla S. Messa sono tutti farisei e opportunisti, mentre sarebbero migliori coloro che non frequentano la Chiesa.

Al danno di questi "sacerdoti" che dall'interno vorrebbero demolire la S. Chiesa, si oppone un altro grido:

FUORI I MERCANTI DAL TEMPIO!





PS: Domenica sera ho partecipato ai festeggiamenti mariani in una parrocchia limitrofa e con gioia ho notato giovani sacerdoti di fuori diocesi in talare, piviale e paramenti tradizionali. I fedeli, me compreso, si sono complimentati con tali sacerdoti per la dottrina e la profonda spiritualità. Che sia un segno positivo?
 
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Imerio
view post Posted on 12/9/2006, 12:16     +1   -1




CITAZIONE (TotusTuus @ 12/9/2006, 11:30)
A proposito di tradizioni religiose, riporto le dichiarazioni di due giovani sacerdoti - naturalmente vestiti in borghese ed in modo sciatto- appartenenti al movimento di Comunione e Liberazione. Entrambi sostengono con gioia che bisogna finirla con le tradizioni (processioni, confraternite, preghiere, novene, tridui....)

Il che si pone in linea perfetta, rispetto alla totalità dei ciellini che ho avuto il modo d'incontrare nel corso della mia esistenza.

Del resto, sarei portato a ritenere che questo atteggiamento liturgico si ponga in perfetta sintonia, rispetto ad una tendenza di fondo di quel movimento che - mi auguro di non offendere nessuno, con questa mia personalissima opinione - ha sempre avuto la rarissima abilità di riuscire a fare sembrare assolutamente inintelligente anche la più geniale e logicamente coerente fra le posizioni dialettiche; mi vengo a meglio spiegare con un'esemplificazione concreta.

Nel periodo anteriore al referendum sulle cellule staminali, quel movimento, in coerenza con il Magistero della Chiesa, organizzò un convegno che ebbi modo di seguire per radio. Già il titolo di per sé costituiva tutto un programma (se non rammento male: "Fratello embrione, sorella verità"); mi colpì, in particolare, un membro di spicco di C.L., il quale tenne un'accorata concione che, se pure nei contenuti appariva completamente condivisibile, pure, veniva condotta attraverso una sequenza argomentativa che, assai da vicino, mi evocava le tecniche utilizzate da alcuni miei amici psichiatri, per poter comunicare con i soggetti psicologicamente disturbati. La povertà del discorso, fra l'altro, aveva ancor più ad evidenziarsi, se confrontata con l'intervento di Giuliano Ferrara che seguiva immediatamente.

Ora, pur essendo in precedenza più che convinto a non recarmi al voto, pure, la vuotaggine initelligente di quel discorso - forse proprio perché pretendeva di intrepretare l'unico approccio cattolicamente possibile al problema - mi riusciva a cagionare un'irritazione così viva, da indurmi in una violenta tentazione di accorrere all'urna ... poi, per fortuna, il buon senso ha prevalso, e sono rimasto a casa, non ostante la violentissima vacuità perentoria delle argomentazioni esibite da C.L. sull'argomento ...

 
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Raimundus
view post Posted on 14/9/2006, 00:20     +1   -1




De Santi Michele, L'abito ecclesiastico. Sua valenza e storia, Carismatici francescani, 2004, pp. 318 (€ 13,00)



Il libro è un excursus storico (fondamenti antropologici, teologici e disciplina canonica) sull'abito sacerdotale, con la prefazione del Cardinale Castrillòn Hoyos. Vi è anche uno scritto dello storico Franco Cardini sul saio francescano.
 
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Raimundus
view post Posted on 25/8/2007, 14:55     +1   -1




L'abito religioso
Autore: Don Claudio CRESCIMANNO

Il popolo cristiano e molti non credenti apprezzano il sacerdote che si fa riconoscere anche dalla veste che indossa. I Papi hanno dato indicazioni precise sull’abito ecclesiastico, ma spesso sono disattese.


Solo apparentemente l’abbigliamento è un puro accessorio. In realtà ciò che si indossa è il primo “linguaggio” con cui si dice ciò che si è. E se sempre si ripete che non bisogna giudicare dalle apparenze, di fatto, specialmente nella nostra società, nel bene e nel male, la forma è sempre più sostanza. Non pare quindi inopportuno interrogarsi sul valore dell’abito religioso e sulle sue recenti, alterne vicende.

La crisi dell’abito religioso
«Scusi, lei è un prete?».
Capita alle volte che, per curiosità o per necessità, qualcuno debba accertarsi in questo modo dell’identità di un “tizio” incontrato per caso e che alcuni indizi fanno supporre essere un ministro di Dio, ma nulla esternamente lo manifesta con certezza. Sino a qualche decennio fa, quando preti, frati e suore apparivano inequivocabilmente tali, una siffatta domanda sarebbe stata assolutamente superflua. E in realtà anche oggi dovrebbe essere così, almeno stando alle norme ufficiali, ad esempio il Codice di Diritto Canonico, che prescrive: «I chierici (cioè diaconi, preti e vescovi) portino un abito ecclesiastico decoroso…» (can. 284) e «i religiosi portino l’abito dell’Istituto … quale segno della loro consacrazione…» (can. 669). Specifiche determinazioni vengono poi lasciate alle Conferenze episcopali. E per quel che riguarda casa nostra, i vescovi italiani, già all’indomani del Concilio Vaticano II, avevano stabilito norme tassative, mai ritrattate, nelle quali si prescrive che sacerdoti e religiosi indossino la veste talare o l’abito proprio del loro Ordine in tutte le funzioni del ministero e in generale nel proprio ambiente di vita, cioè nel territorio della parrocchia o della casa religiosa, nell’ambito della predicazione, dell’insegnamento e delle altre attività abituali; è consentito invece l’uso del clergyman nei viaggi e nelle attività estranee all’esercizio del ministero.
Su questa linea si è ripetutamente espressa anche la Santa Sede. Nel 1976 la Congregazione per i Vescovi inviava a tutte le Conferenze episcopali del mondo una lettera (27.01.1976) nella quale ricordava che l’autorizzazione ad un adeguamento dell’abito religioso non può in alcun modo trasformarsi in un abbandono di esso, che resta importante per tutti i consacrati indossare una divisa che esprima la loro condizione e la renda chiaramente evidente ai fedeli e a tutti gli uomini, che non si può che deplorare il disprezzo per tali valori, prevedendone le gravissime conseguenze per la disciplina religiosa e la mentalità dei fedeli. Più recentemente, la Congregazione per il Clero riaffermava che né il solo colletto bianco, né una semplice croce bastano a rendere “ecclesiastico” un abito borghese (Lettera del 10-02-1996).
Ma nonostante il moltiplicarsi di leggi e richiami, la disaffezione di tanti all’abito religioso è sotto gli occhi di tutti.
I paladini di questa politica abusiva ma tanto praticata invocano a loro difesa la necessità di essere più vicini alla gente, al cui scopo un abito specifico sarebbe d’intralcio. In realtà, è interessante notare che solo i laicisti, propugnatori della più ampia desacralizzazione della società mediante la secolarizzazione del clero e, se fosse possibile, della Chiesa stessa, hanno accolto con entusiasmo tale novità; la gran parte della gente, credente e non credente, quella che davvero vuole il sacerdote vicino, abitualmente apprezza i ministri di Dio “in divisa”.
D’altronde, è evidente che la vicinanza o meno alle persone è questione di sensibilità, di apertura di mente e di cuore, in definitiva di zelo per il bene temporale ed eterno dei fratelli, mentre il vero ostacolo contro tale vicinanza non è certo l’abito, quanto piuttosto uno stile frettoloso, l’incapacità di ascoltare, l’insofferenza per tutto ciò che esce dai propri schemi e dai propri programmi. A questo proposito restano limpide e ammonitrici le parole del papa Giovanni Paolo II: senza dubbio l’attività pastorale richiede che il sacerdote sia vicino a tutti gli uomini e ai loro problemi … ma deve essere anche ben chiaro che essa esige che si stia vicino a tutti questi problemi «da sacerdote» (cf. Lettera Novo incipiente, dell’8 aprile 1979, n.7).
Ma non è da escludere che la nuova prassi sia non solo il frutto di un malinteso senso di vicinanza, ma, ben più gravemente, il sintomo di una crisi di identità dei consacrati, come più volte i recenti Pontefici hanno lamentato: in questo caso non si apprezzerebbe più il valore di una distinzione esteriore tra consacrati e fedeli laici, perché non se ne apprezzerebbe più fino in fondo la distinzione teologica. Paolo VI, ad esempio, lamenta che ci si sia spinti troppo oltre nell’intenzione, per sé lodevole, d’inserire il sacerdote nella compagine sociale, arrivando a secolarizzare il suo modo di vivere, di pensare, e di conseguenza il suo abito, con il grave rischio di svigorire la sua vocazione e offuscare gli impegni sacri assunti davanti a Dio e alla Chiesa (Udienza generale del 17.09.1969). È divenuto quindi decisivo ribadire ciò che di per sé è scontato, cioè che il sacerdote è ministro di Cristo e della Chiesa, contro la tendenza ormai tanto diffusa a ridurlo ad un uomo come gli altri, con un abito come quello degli altri, quale pericoloso preludio ad uno stile di vita come quello degli altri (Paolo VI, allocuzione al clero del 01.03.1973). Ugualmente Giovanni Paolo II fin dall’inizio del suo pontificato ricorda ai ministri sacri che l’identità sacerdotale deve essere scrupolosamente difesa dall’insidiosa tentazione di laicizzare il proprio modo di vivere, di agire e di vestire (cf Lettera Novo incipiente del 1979 e allocuzione al clero del 09.11.1978).

Il valore dell’abito religioso
Dunque, l’importanza di un abito distintivo per i consacrati resta confermata dalla voce dell’Autorità ecclesiastica e da quella del buon senso.
E in effetti l’abito è portatore di un triplice valore.
Ha anzitutto un valore psicologico: indossare la divisa di un determinato corpo sociale è memoria permanente a sé e agli altri dei motivi della propria scelta e degli impegni connessi ad essa, rafforzando così il senso di appartenenza a quel corpo.
Ha poi un valore sociologico: significa rinunciare alla manifestazione esteriore della propria singolarità per identificarsi con una categoria, nella quale si spicca per “ciò” che si è, più che per “chi” si è; contemporaneamente costituisce l’affermazione pubblica della propria condizione e quindi l’esplicita dichiarazione del proprio appartenere a Cristo e alla Chiesa cattolica.
Ma soprattutto ha un valore teologico: è partecipazione della corporeità alla dedicazione a Dio di tutta la persona; è manifestazione di quell’elezione divina per cui un uomo viene scelto e separato dagli altri uomini, per essere costituito a bene degli altri, nelle cose che riguardano Dio; è segno di quella trasformazione per cui il consacrato si spoglia dell’uomo vecchio e mondano e si riveste di Cristo, uomo nuovo, creato secondo Dio nella santità.
La nostra società così secolarizzata, nella quale i segni del soprannaturale si sono tanto rarefatti, ha più che mai bisogno di “vedere” gli uomini del sacro. Non vogliano i servi di Dio e della Chiesa deludere questa importante aspettativa. E se resta vero che “l’abito non fa il monaco”, qualcuno opportunamente ebbe a dire che, però, “un buon monaco ama il suo abito”.
 
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-Renato-
view post Posted on 10/9/2007, 20:25     +1   -1




Io abito a Rozzano , sud milano, e di talare neanche l'ombra.
Tutte le chiese che ho frequentato non ho mai visto un sacerdote in talare.Ma in cleargy o in "borgese".


A prescindere da tutto mi piace molto più la talare che il cleargy infatti ritengo la giaca un abito per niente comodo.
Inoltre i preti che sono in talare sono riconosciuti subito e godono forse anche di maggior rispetto.

 
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Raimundus
view post Posted on 10/9/2007, 20:42     +1   -1




Bravo, Renato
 
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the wise
view post Posted on 11/9/2007, 07:12     +1   -1




CITAZIONE (-Renato- @ 10/9/2007, 21:25)
in "borgese".

:unsure:

Come sarebbe vestito un prete in "borgese" ? con la divisa della X mas ?
 
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Raimundus
view post Posted on 11/9/2007, 08:53     +1   -1




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-Renato-
view post Posted on 16/9/2007, 22:02     +1   -1




CITAZIONE (the wise @ 11/9/2007, 08:12)
CITAZIONE (-Renato- @ 10/9/2007, 21:25)
in "borgese".

:unsure:

Come sarebbe vestito un prete in "borgese" ? con la divisa della X mas ?

tutto meno che talare e cleargy ;)
 
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Raimundus
view post Posted on 18/9/2007, 08:25     +1   -1




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Che c'è di più bello di una talare?
 
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Raimundus
view post Posted on 25/3/2008, 13:03     +1   -1




L'ABITO ECCLESIASTICO
Precisazione disciplinare indirizzata il 20 agosto 1972
ai Superiori dei due Seminari diocesani di Genova dal Card Giuseppe Siri.
Ritengo di attirare la attenzione su un problema, che sta diventando della massima importanza: quello dell'abito ecclesiastico.
Ecco i termini del problema.
Abito ecclesiastico «normale» è soltanto la «talare». Così ha deciso la CEI nel marzo 1966. È semplicemente permesso l'uso del «clergyman» con forti restrizioni: no per l'esercizio del ministero, per la amministrazione dei Sacramenti e dei Sacramentali, per la celebrazione della santa Messa, per la predicazione e per la scuola di religione [1].
Questa disposizione della CEI è completata dalle indicazioni che il decreto citato dà circa il clergyman: nero o grigio ferro con il colletto detto romano. Questo colletto, che esclude maglioni, camicie ed altro, diventa l'elemento più qualificante dell'abito «tollerato».
Alle disposizioni della CEI, il cui Decreto era stato autorizzato dalla Santa Sede, sono tenuti i Religiosi di qualunque genere.
Infine, data l'origine del citato Decreto, non esiste autorità anche diocesana che possa sopprimerne o mutarne le norme, alterarne in qualunque maniera il disposto o concedere che il tutto sia supplito da una minuscola crocetta all'occhiello, del tutto incapace di fare individuare facilmente il Ministro del culto cattolico.
Di fatto si sta assistendo alla più grande decadenza dell'abito ecclesiastico. Le esibizioni sono di tutti i gusti e le riviste non hanno pudore di nascondere quanto la legge non ammette. Per grazia di Dio nella nostra Diocesi, salvo qualche originalità, qualche frettolosa spogliazione per intrufolarsi a vedere giochi e cose simili, l'enorme maggioranza del clero usa la sola talare ed il numero di coloro che usano il clergyman è assai ridotto. Ma, senza una visione delle proprie responsabilità e di quanto ci accade intorno, rischiamo che domani, qui, sarà come è già dolorosamente altrove.
Ora, dinanzi alla Legge e dinanzi agli abusi spudorati coi quali la si offende, Noi invitiamo a fare chiare e definitive considerazioni, fermo restando che dalla inosservanza di una Legge non si può certo attendere il beneplacito divino [2].

l. L'abito condiziona fortemente e talvolta forgia addirittura la psicologia di chi lo porta

L'abbigliamento, infatti, impegna per la vestizione, per la sua conservazione, per la sostituzione. È la prima cosa che si vede, l'ultima che si depone. Esso ricorda impegni, appartenenze, decoro, colleganze, spirito di corpo, dignità! Questo fa in modo continuo. Crea pertanto dei limiti alla azione, richiama incessantemente tali limiti, fa scattare la barriera del pudore, del buon nome, del proprio dovere, della risonanza pubblica, delle conseguenze, delle malevoli interpretazioni. Obbliga a riflettere, a contenersi, ad essere in consonanza con l'ambiente al quale l'abito ci ascrive. Ha la capacità di dare, per salvaguardare quel pudore, una forza che senza di esso non esisterebbe affatto; riesce ad impedire che si oltrepassino certe soglie; trattiene le espansioni, le curiosità morbose. Un sorvegliante attento non riuscirebbe ad impedire quanto può impedire l'abito che si porta e che ci qualifica.
Per tale motivo, da sempre, le civiltà, in tutte le forme, anche rimaste congelate nei secoli, hanno affidato alle divise il compito di conservare compattezza, lucidità circa i propri obblighi, le proprie funzioni, le proprie responsabilità.
Le rivoluzioni che hanno voluto distruggere tutto, sovvertendo la funzione delle divise, hanno dovuto ben presto cedere a farne altre.
Sottovalutare nei confronti della umana natura la importanza dell'abito e delle divise è non capire affatto la natura, la storia, la debolezza umana. la labilità della psicologia degli uomini e delle donne.
Tutto questo porta ad una chiara conclusione, alla quale rimando.

2. L'abito non fa il monaco al 100%, ma lo fa certamente in parte notevole; in parte maggiore, secondo che cresce la sua debolezza di temperamento [3]

Svanita la presenza dell'abito, svanisce quello che esso suggerisce, resta aperto il campo ad ogni debolezza; tutte le tendenze e le sollecitazioni si fanno prepotenti, e - salva sempre la azione della grazia - sotto questo aspetto non esiste più protezione.
Nei giovani, l'impulso, la curiosità, il fremito della vita, la sua esuberanza fanno sì che l'assenza della divisa diventi più compromettente che negli adulti. Nella vita ecclesiastica e nella professione religiosa le prove da evitare, i pericoli da sfuggire sono ben maggiori che nei laici ed hanno pertanto più bisogno degli altri di essere sostenuti da un abito impegnativo. La prova patente verrà in quello che dirò appresso. Molti hanno vinto l'ultima, decisiva spinta della tentazione solo perché avevano un abito, una divisa qualificante addosso.
Per tale motivo la questione della divisa ingigantisce nel campo ecclesiastico e si impone alla attenzione di quanti vogliono salvare vocazioni, perseveranza negli accettati doveri, disciplina, pietà, santità!
Tutto quello che vengo dicendo ha nei Paesi latini una ragione ben maggiore che nei Paesi anglosassoni. La ragione è che in tali Paesi l'abito «corto» o «clergyman» fu imposto dalla situazione non sempre serena di diaspora in Paesi a maggioranza protestante; rappresentava pertanto una costrizione odiosa e per nulla la posta di un desiderio di liberazione. Nei Paesi latini l'abito non talare fu il desiderio di una maggiore indipendenza. Ed è questo che crea il problema. Diversamente si dovrebbe ragionare, se solo fosse una questione di fungibilità. Ma non lo è affatto ed è inutile, oltreché dannoso, illudersi.

3. Quel che succede

Quel che succede altrove dice quello che succederà tra noi domani, se oggi non avremo disciplinatamente un indirizzo di giusta austerità in fatto di vestito.
Succede (altrove, a Genova il caso è stato più unico che raro) che si comincia a togliere il colletto romano al clergyman, cioè l'unico elemento vero che classifica. Alcuni hanno già adottato, in aperta violazione del Decreto della CEI, l'abito grigio chiaro, conservando tuttavia il colletto romano. Poi si arriva al maglione scuro, e tale colore fa presto a schiarirsi, con tutto il resto dell'abbigliamento. Finalmente siamo all'abito borghese, senza alcuna riserva.
Analogamente succede che in talune città d'Italia (non citiamo ovviamente i nomi, ma siamo ben sicuri di quello che diciamo) per l'assenza di ritegno imposto dalla sacra divisa si arriva ai divertimenti tuttavia proibiti dal Codice di Diritto Canonico, ai night clubs, alle case malfamate e peggio. Sappiamo di retate di seminaristi fatte in cinema malfamati ed in altri non più consigliabili locali.
Tutto per colpa dell'abito tradito!

4. Quello che il popolo ne pensa

È difficile usare la parola popolo. Certo è che non sono «popolo» gruppuscoli, votati alla distruzione, non delle strutture soltanto, ma della Chiesa di Cristo. Neppure sono «popolo» ristretti ambienti legati ormai solo dal comune odio verso chi difende la Verità e la tradizione cattolica, come se questa non fosse altra cosa dalle altre tradizioni, e non fosse di origine divina. Nemmeno sono «popolo» coloro che nella Chiesa sabotano quanto fanno i Pastori a qualunque livello, portano alla perversione disgraziati preti e disgraziati frati. «Popolo» è quello che va in chiesa con umiltà e devozione, che forse non va più in chiesa, ma che crede ancora e, nei momenti in cui dimostra questa Fede, ragiona secondo il catechismo, rispetta le cose sacre, ha un concetto teologico del ministero sacerdotale, fa celebrare le sante Messe, va al cimitero e qualche volta col santo timore di Dio, ma senza presunzione, o prima o poi pensa alla vita eterna. Popolo sono tutti coloro che non vogliono saperne di preti e di Chiesa, ma al primo guaio, al momento dell'abbandono degli altri, quando la disgrazia bussa alla porta, ricorrono ai propri anche umili Pastori, dando così una attestazione inequivocabile del loro giudizio sulla Fede. Nelle visite pastorali ho raccolto tanti episodi da poterne scrivere un gran libro di «Fioretti».
Questo «popolo», da noi, sono ancora i più. I molti che se ne staccano al tempo del carnevale giovanile, poi alla chetichella, o prima o poi, li trovate alla Guardia ed a tutti i Santuari...
Ecco allora quello che pensa questo «popolo».
In genere si scandalizza del prete senza l'abito talare; immaginate che pensa quando il prete non ha alcun abito ecclesiastico. Lo schermo dei pochi, contenti di rovinarci, non serve e non illude il vero «popolo».
Qui da noi ormai molti disertano il confessionale del prete senza talare.
A Genova, e non in un posto solo, ho sentito di peggio e tale che non oso qui riportarlo. I casi in cui i preti o il prete rimasti con la talare sono pubblicamente preferiti aumentano ogni giorno. Il «popolo» avrà i suoi peccati, ma ha una sua severità di giudizio.

5. Il bilancio che ne consegue

Eccolo:
- disistima;
- sfiducia;
- insinuazioni facili e talvolta gravi;
- preti che, cominciando dall'abito e dallo smantellamento della prima umile difesa, finiscono dove finiscono...
- crisi sacerdotali, del tutto colpevoli, perché cominciate col rifiuto delle necessarie cautele, richieste dal Diritto Canonico e dal consiglio dei Vescovi..., con risultati disgraziati e spostati...
- seminari che si svuotano e non resistono; mentre nel mondo, tanto in Europa che in America, rigurgitano i seminari, ordinati secondo la loro genuina origine, col rigoroso abito ecclesiastico, nella vera obbedienza al Decreto conciliare Optatam totius;
- anime che si trascinano innanzi senza più alcuna capacità decisionale, dopo la loro contaminazione col mondo.
L'abito è la «porta»!

6. Per i seminari

La mancanza di continuità e di rispetto nell'uso dell'abito ecclesiastico demolisce la prima difesa.
La distinzione dal mondo non esiste più. Il rimanente è facile intuirlo. La obbedienza, lo spirito di sacrificio, la prontezza alla dedizione, la pietà profonda diventano a poco a poco chimere. La spavalderia prende il posto della educazione, l'esibirsi sostituisce il distacco dal mondo e l'umile educato contegno che lo connota. La contestazione (alla quale si debbono ascrivere le terribili crisi del poi, quando le responsabilità sostituiscono ogni stile canzonatorio) prende il posto dello spirito ecclesiastico e miete le sue grandi vittime!
Credo difficile possa esistere nel nostro tempo, proprio per le sue caratteristiche, lo spinto ecclesiastico senza il desiderio e il rispetto dell'abito ecclesiastico.

7. La talare finalmente!

Qui non parliamo solo di «abito ecclesiastico», ma di talare. E guardiamo bene le cose in faccia, senza alcun timore di quel che si può dire.
Fino a questo momento la legge dice che «la talare è l'abito normale» dell'ecclesiastico. Il che significa che il clergyman non è l'abito normale.
Alcuni, per boicottare l'uso della talare o per giustificarsi nell'aver ceduto alla moda corrente contraria all'abito talare, affermano: «Tanto la talare è un abito liturgico», volendo così esaurire l'eventuale uso della talare alla sola liturgia.
Questo è apertamente falso e capziosamente ipocrita!
Le ragioni sono diverse: la più evidente è fornita dalla prassi secondo cui la talare non solo non è mai stata sufficiente per la celebrazione dei sacramenti e sacramentali, ma non è mai stata considerata nemmeno come abito corale.
Alla liturgia la talare è ordinata non solo per la immediata azione sacra, ma in quanto di tale azione sacra ne estende la forza, la dignità e la santità all'intera vita del sacerdote, caratterizzata dalla perenne preparazione e continuazione dei sacri misteri che celebra.
La legge mette tante limitazioni all'uso del clergyman che chi vuole osservarla e tenersi il suo clergyman deve girare tutto il giorno con sotto il braccio la talare stessa o il clergyman. So bene che c'è chi non pone alcun caso alla legge, ma debbo dirgli che Dio, futuro giudice, non è affatto di questo avviso.
Francamente è chiaro che il clergyman è una concessione fatta e tollerata per la fungibilità soltanto, che lo stesso clergyman non è la soluzione più desiderata. Chi non ama la sua talare resisterà ad amare il suo servizio a Dio?
Il prossimo non sostituisce Dio!
Non è soldato chi non ama la sua divisa.

Conclusione

L'indirizzo da darsi è:
- che anche se la legge ammette il clergyman, esso non rappresenta in mezzo al nostro popolo la soluzione ideale;
- che chi intende avere l'integro spirito ecclesiastico deve amare la sua talare;
- che soltanto una ragione di fungibilità, direi a malincuore, potrà autorizzare a servirsi dell'abito corto ammesso;
- che la difesa della talare è la difesa della vocazione e delle vocazioni.
Il mio dovere di Pastore mi obbliga a guardare assai lontano. Ho dovuto constatare che la introduzione del clergyman oltre la legge e le depravazioni dell'abito ecclesiastico sono una causa, probabilmente la prima, del grave decadimento della disciplina ecclesiastica in Italia.
Chi vuol bene al sacerdozio, non scherzi con la sua divisa!
 
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Kajetan
view post Posted on 25/3/2008, 13:08     +1   -1




Bello, ma purtroppo Satana è già sulla buona strada su questa problematica... nella mia Diocesi, la talare è una visione molto improbabile...
 
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Placeat
view post Posted on 2/6/2008, 20:20     +1   -1




Ogni tanto un fatto piacevole! Dovrebbero essere molto più rigidi nel far portare l'abito ai prelati. Certe cose, a volte, sono frutto di cose concrete ed esempi.
 
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Raimundus
view post Posted on 3/8/2008, 16:30     +1   -1




Disobbedienti alla Chiesa i chierici che non indossano l'abito ecclesiastico

di Matteo Orlando

CITTA’ DEL VATICANO - Il Codice di Diritto Canonico prescrive: “I religiosi portino l’abito dell’Istituto (religioso cui appartengono)… quale segno della loro consacrazione…” (can. 669); “I chierici (cioè diaconi, preti e vescovi) portino un abito ecclesiastico decoroso…” (can. 284). La Conferenza Episcopale Italiana (CEI), a sua volta, specificando quanto prescrive il Diritto canonico, stabilisce: “Salve le prescrizioni per le celebrazioni liturgiche, il clero (diocesano) in pubblico deve indossare l’abito talare o il clergyman”. (Notiziario CEI 9,1983, 209). Su questa linea del Diritto Canonico e della CEI si sono espressi tutti Papi dal Concilio ai nostri giorni. Eppure la disaffezione di tanti preti e religiosi al loro precipuo abito è sotto gli occhi di tutti. Per cui sembra che frati e preti siano scomparsi dalla circolazione, mimetizzati come sono in abiti borghesi. Ma il loro è un ministero, un servizio, un impegno pubblico: non possono né devono perciò nascondere la loro identità. La loro disobbedienza alla Chiesa diminuisce la stima del popolo di Dio verso il clero diocesano e gli stessi religiosi, e quindi la loro incidenza pastorale. Dimenticano questi nostri fratelli maggiori che l’abbigliamento non è un puro accessorio, è un biglietto di presentazione. Infatti l’abito ha: un valore psicologico: ricorda a chi lo indossa e a chi lo vede impegni, appartenenza, decoro, spirito di corpo, dignità. Obbliga a riflettere sia chi lo indossa sia colui che lo vede; un valore sociologico: è l’affermazione pubblica della propria condizione, e quindi l’esplicita dichiarazione del proprio appartenere a Cristo e alla Chiesa cattolica; un valore teologico: esprime la partecipazione della corporeità alla dedicazione a Dio di tutta la persona; è manifestazione di quell’elezione divina per cui un uomo viene scelto e separato dagli altri uomini, per essere costituito al loro servizio nelle cose che riguardano Dio. Nonostante che certi sacerdoti, religiosi e suore, nelle loro rette intenzioni, credano di essere più popolari e vicini a noi laici vestendo o abbigliandosi come noi, sappiano che si sbagliano di grosso. Noi li vogliamo diversi da noi nella santità, ma anche nell’abito che ci ispira fiducia e ce li mostra visibilmente obbedienti alla Chiesa. Purtroppo non basta fare leggi e dare disposizioni, sono indispensabili la vigilanza e i richiami dei superiori, sia Vescovi che Superiori religiosi: vigilanza e richiami sono quasi del tutto mancati. Il calo delle vocazioni, sia sacerdotali che religiose, è dovuto, in parte, alla mancanza del fascino della divisa: tale fascino non è la vocazione, ma può essere uno degli elementi ordinari che ne preparino il seme divino. La vocazione non è una folgorazione, bensì qualcosa che si riceve in un contesto educativo e di preghiera (es. i genitori che chiedono al Signore la vocazione per il figlio o la figlia); in questo contesto educativo si inserisce il saio del frate o della suora, la talare o il clergyman del prete. Sapessero, certi sacerdoti, quante volte ha cantato vittoria Satana, durante recenti esorcismi, per essere riuscito a “spogliare” il clero!

http://www.papanews.it/dettaglio_approfond...p?IdNews=8746#a
 
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63 replies since 6/9/2006, 21:17   3985 views
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